1)
1.1. – Il tema della responsabilità dello Stato membro verso il cittadino per omessa, ritardata od inadeguata attuazione di direttiva comunitaria, va necessariamente preceduto dalla trattazione dei due fondamentali principi del diritto comunitario in rapporto al diritto interno, elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina comunitaria:
a) l’applicabilità diretta;
b) la prevalenza (altrimenti detta, primautè, primazia, primato, supremazia, superiorità).
1.2. – Sull’applicabilità diretta del diritto comunitario nel diritto interno, la nota sentenza C.G.C.E. 5 febbraio 1963 (causa 28/62, Van Genden en Loos) ha definito il diritto comunitario quale ordinamento distinto da quello degli stati membri e con un’autonomia e dignità sue proprie:
«La Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro diritti sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini . . . L’art. 12 del Trattato CEE ha valore precettivo ed attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare».
1.3. – Sulla prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno, l’altrettanto nota C.G.C.E. 15 luglio 1964 (causa 6/64, Costa c. Enel) ha stabilito l’integrazione del primo nei singoli diritti nazionali:
«Il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli stati membri . . . Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica . . . una limitazione definitiva di loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia . . . Il principio della prevalenza del diritto comunitario si risolve allora, in sostanza, nell’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore».
1.4. – Al fine di salvaguardare la norma comunitaria rispetto alla norma interna difforme da essa, C.G.C.E. 9 marzo 1978 (causa 106/77, Simmenthal), compiendo un ulteriore passo in avanti, ha affermato il potere del giudice nazionale di disapplicare la seconda:
«Qualsiasi giudice nazionale, adìto nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria».
Conff., ex plurimis, C.G.C.E. 8 aprile 1976 (causa 43/75, Defrenne), 21 giugno 1974 (causa 2/74, Reyners), 3 aprile 1968 (causa 28/67, Molkerei); per l’Italia, Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168, idd., 6 ottobre 1981 n. 176, 29 dicembre 1977 n. 163, 28 luglio 1976 n. 205, 30 ottobre 1975 n. 232, 27 dicembre 1973 n. 183, Cons. St. 7 novembre 1962 n. 778, Cass. 4 agosto 1977 n. 3461, id., 22 aprile 1976 n. 1445); in dottrina, per tutti, FOIS, Rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Enc. Giur. Treccani, XXV, Roma, 1988.
2)
2.1. – Altro decisivo punto in favore della prevalenza e dell’applicabilità diretta del diritto comunitario è stato offerto dal riferito riconoscimento della responsabilità civile dello Stato membro per omessa, ritardata e/o inadeguata attuazione di direttiva comunitaria.
2.2. – Epocale per la definitiva apertura al principio, C.G.C.E. 19 novembre 1991 (cause C – 6/90 e C – 9/90, Francovich ed aa., Bonifaci ed aa.), che ha fissato le seguenti tre condizioni per farsi luogo al risarcimento in favore del soggetto leso nei confronti dello Stato membro:
a) la direttiva inattuata nei termini deve implicare l’attribuzione di diritti in favore dei singoli;
b) il contenuto di tali ultimi diritti deve essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva medesima;
c) l’esistenza di un nesso causale tra la violazione dell’obbligo attuativo a carico dello Stato ed il danno subito dal soggetto leso.
Si trascrivono, per comodità, alcuni stralci della motivazione della sentenza Francovich:
«Secondo una giurisprudenza costante, lo Stato membro che non ha adottato entro i termini i provvedimenti di attuazione imposti da una direttiva non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa. Perciò, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti d’attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto siano atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato (punto 11);
. . . Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del trattato.
L’obbligo degli Stati membri di risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nell’art. 5 del trattato, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario. Orbene, tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario» (punti 35 e 36).
Ed ancora:
«È nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato. Infatti, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascun Stato membro designare il giudice competente a stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario» (punto 41).
«Qualora . . . uno Stato membro violi l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, 3° comma, del trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto a risarcimento ove ricorrano tre condizioni.
La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subìto dai soggetti lesi (punti 39 e 40)».
2.3. – L’ordine d’idee della sentenza Francovich è stato ulteriormente affinato da C.G.C.E. 5 marzo 1996 (cause riunite C – 46 e C – 48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame), di cui degni di menzione i seguenti passaggi:
«Tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei loro compiti, all’osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli (punto 34).
. . . Nell’ipotesi in cui una violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro sia imputabile al legislatore nazionale che operi in un settore nel quale esso disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative, i singoli lesi hanno diritto al risarcimento qualora la norma comunitaria violata sia preordinata ad attribuire loro diritti, la violazione sia manifesta e grave e ricorra un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subìto dai singoli. Con questa riserva, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato dalla violazione del diritto comunitario ad esso imputabile, fermo restando che le condizioni stabilite dalla normativa nazionale applicabile non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna né essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (punto 74).
Ed infine:
«I singoli lesi hanno diritto al risarcimento qualora la norma comunitaria violata sia preordinata ad attribuire loro diritti, la violazione sia manifesta e grave e ricorra un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subìto dai singoli» (punto 99).
2.4. – In chiusura del punto, non possono tacersi le illuminate conclusioni sul tema de quo dell’avv. gen. Tesauro sulle menzionate cause Brasserie du pêcheur e Factortame:
«Omissis:
«33. D’altra parte, l’affermazione – ormai incontestata – dall’obbligo risarcitorio dello Stato nei confronti del singolo in caso di mancata attuazione di una direttiva, in un’ipotesi dunque di violazione dell’obbligo a carico dello Stato (violazione dell’art. 189, nonché dell’art. 5, del trattato) solo indirettamente collegabile ad una violazione di un corrispondente diritto del singolo, implica – a fortiori – che quella stessa tutela deve poter essere accordata nell’ipotesi in cui siano direttamente violate norme che allo stesso singolo garantiscono una posizione giuridica soggettiva e che sono pertanto direttamente invocabili dinanzi ai giudici nazionali.
In questo senso, la tesi secondo cui non si potrebbe ‘‘andare oltre’’ l’affermazione della responsabilità per l’ipotesi di mancata trasposizione di direttiva, non solo non è condivisibile per i motivi sin qui esposti, ma trascura anche di considerare che è proprio l’ipotesi Francovich semmai l’ultimo (e non il primo) porto cui la giurisprudenza della corte può approdare. A ben guardare, infatti, la pronuncia Francovich ha attribuito un mezzo di tutela (almeno patrimoniale) dove la tutela prevista era quella indicata all’art. 169, che non è tutela diretta per il singolo. Al contrario, per l’ipotesi di violazione di norme provviste di effetto diretto la tutela già c’è ed è direttamente azionabile dal singolo, sì che si tratta soltanto di accompagnarla con quel minus che è la tutela patrimoniale. In tale ipotesi, dunque, non si opera nemmeno quel «piccolo» salto logico che è invece necessario per passare dalla violazione dell’art. 189 alla lesione del diritto del singolo potenzialmente attribuito dalla direttiva.
Né va dimenticato che rispetto alle norme provviste di effetto diretto la giurisprudenza è costante nell’affermare che esse ‘‘devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità’’; e che ‘‘questo effetto riguarda tutti i giudici che, aditi nell’ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario’’. Com’è ben chiaro, dunque, la norma comunitaria provvista di effetto diretto attribuisce al singolo una posizione giuridica soggettiva fin dalla sua entrata in vigore e per tutta la durata della sua vigenza, indipendentemente ed anche a dispetto della norma nazionale preesistente o successiva che eventualmente negasse quella stessa posizione giuridica. Ne consegue pertanto che il giudice nazionale è tenuto ad apprestare una tutela giurisdizionale completa ed effettiva dei diritti attribuiti al singolo dalla norma comunitaria di cui si tratta.
34. Ora, è innegabile che la violazione di una norma crea uno squilibrio, che consiste nella riduzione o nell’annullamento della situazione giuridica colpita, all’occorrenza quella di cui è titolare un singolo; è altresì indubbio che ogni situazione giuridica soggettiva, ogni ‘‘diritto’’ se si preferisce, ha un contenuto sostanziale ed un contenuto patrimoniale normalmente quantificabile. Garantire l’effettività della tutela giurisdizionale in caso di violazione della norma che attribuisce una posizione giuridica soggettiva significa garantire il ripristino del contenuto del diritto pregiudicato dalla violazione della norma. E se a pregiudicare illegittimamente il diritto del singolo è un atto d’imperio – un atto amministrativo o una legge – è chi lo ha posto in essere che deve ripristinare il diritto del singolo o almeno il suo contenuto patrimoniale.
In definitiva, il ripristino del contenuto patrimoniale è un minus, un rimedio minimo rispetto all’ipotesi di completo ripristino sostanziale, che resta il mezzo ottimale di tutela. Annullare l’atto illegittimo o disapplicare la legge incompatibile rispetto ad un parametro superiore di legittimità è necessario, in uno Stato di diritto. A volte, tuttavia, ciò non è sufficiente, sì che può essere necessario, per rendere reale ed effettiva la tutela, riportare in equilibrio anche il contenuto patrimoniale del diritto leso e dunque garantire il ristoro del danno. Il riequilibrio patrimoniale del diritto leso non è pertanto un quid di diverso o di supplementare, tanto meno di nuovo. Né rappresenta un optional sofisticato e remoto di un sistema giuridico che voglia e debba essere effettivo.
Insomma, il principio della responsabilità patrimoniale dello Stato deve trovare applicazione come rimedio sia alternativo che aggiuntivo rispetto alla tutela sostanziale; pertanto, deve trovare applicazione rispetto alla violazione sia di norme sprovviste di effetto diretto, nel senso di norme non direttamente invocabili dinanzi ai giudici nazionali, sia di norme che invece danno tale possibilità.
c) L’obbligo risarcitorio dello Stato per fatto del legislatore.
35. Non mi sembra che una tale conclusione possa essere inficiata dalla circostanza che talvolta o spesso le violazioni del diritto comunitario siano imputabili al legislatore.
Ricordo in proposito che la sentenza Francovich, che pure nessuno degli Stati che hanno presentato osservazioni nel presente procedimento ha messo in discussione, non opera alcuna distinzione a seconda che il danno derivi da una violazione riconducibile ad omissioni del potere legislativo ovvero esecutivo. E certo non vi è motivo per ritenere che una diversa conclusione si imponga rispetto alle ipotesi qui rilevanti.
Tuttavia, come evidenziato dai giudici nazionali nelle rispettive ordinanze di rinvio, la possibilità di accordare un risarcimento dei danni sarebbe ad essi preclusa dal rispettivo diritto nazionale, appunto perché le violazioni del diritto comunitario sono nella specie imputabili al legislatore, vuoi per aver questi omesso di modificare una legge nazionale in modo da renderla conforme al diritto comunitario (causa C-46/93, Brasserie du Pêcheur), vuoi per aver adottato una legge nazionale incompatibile con tale diritto (causa C-48/93, Factortame III). In buona sostanza, dunque, attesa l’impossibilità di esperire un’azione in responsabilità in caso di attività o inattività del legislatore, in ipotesi del genere il diritto nazionale porterebbe alla negazione del principio stesso della responsabilità.
36. È vero che l’irresponsabilità dello Stato per fatto del legislatore è stata in passato un’idea diffusa. Essa trovava la sua ragion d’essere nel rilievo che il sovrano non può comportarsi in modo illegittimo; ovvero, nella versione più moderna e democratica, nella sovranità del parlamento. In altre parole, in quanto massima espressione del potere sovrano, il legislatore, considerata anche la legittimità democratica di cui gode, sarebbe in via di principio sottratto alle regole generali della responsabilità.
Una tale concezione, consolidatasi soprattutto nei sistemi giuridici in cui non si conosce l’accertamento della conformità della legge rispetto ad un parametro superiore, dovrebbe presentarsi in termini diversi allorché esiste una norma superiore che permette di verificare ed eventualmente negare la legittimità dell’attività del legislatore. Peraltro, anche in quegli ordinamenti in cui non solo esiste una chiara e formale gerarchia tra norme costituzionali e norme legislative, ma anche un meccanismo di controllo ad hoc sul costante rispetto di tale gerarchia (Austria, Italia, Germania e Spagna, ad esempio), la questione della risarcibilità dei danni derivanti da una legge incostituzionale è tutt’altro che pacificamente risolta. Resta che, in tale ipotesi, non può comunque escludersi che lo Stato sia chiamato a rispondere dei danni provocati da leggi dichiarate costituzionalmente illegittime.
37. Vero è che quando il legislatore sia tenuto, nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali, al rispetto di determinati limiti imposti da norme superiori, non vi è ragione alcuna di teoria giuridica generale per negare che lo Stato possa essere tenuto al risarcimento dei danni provocati da leggi che quei limiti abbiano violato. In tali condizioni, la responsabilità per fatto del legislatore non è concettualmente molto lontana e diversa dalla responsabilità dell’amministrazione per attività normativa, oggi ammessa senza difficoltà più o meno sotto ogni latitudine.
Vi è anche di più. È noto che, nella maggior parte degli ordinamenti, in determinati casi si compensa la riduzione patrimoniale subita dal singolo per effetto di un’attività del legislatore perfettamente lecita, in quanto posta in essere senza alcuna violazione di una norma agendi: si pensi alle ipotesi di nazionalizzazione e di esproprio per pubblica utilità. Se pertanto si ammette che il sacrificio legittimamente imposto alla situazione giuridica e patrimoniale del singolo a favore dell’interesse pubblico deve essere accompagnato da una giusta indennità, sarebbe almeno singolare non ammettere che se questo danno è prodotto da un atto normativo illegittimo perché in contrasto con una norma superiore (costituzionale, comunitaria, comunque prevalente rispetto all’atto) non ci sia spazio alcun per il risarcimento.
38. È appena il caso di ricordare, poi, che nei rapporti regolati dal diritto internazionale la responsabilità dello Stato per fatto del legislatore è universalmente e pacificamente ammessa. Tra le tante occasioni, vale ricordare il principio affermato dalla Corte permanente di giustizia internazionale secondo cui l’obbligo di riparare è la diretta conseguenza di un atto dannoso contrario al diritto internazionale imputabile ad uno Stato. Più precisamente: ‘‘è un principio di diritto internazionale che la violazione di un’obbligazione importa l’obbligo di riparare in forma adeguata: la riparazione è dunque il complemento indispensabile della mancata applicazione di una convenzione, senza che sia necessario che ciò venga scritto nella convenzione stessa’’.
39. Certo, non mi nascondo che per il diritto internazionale l’obbligo dello Stato di riparare i danni sorge, anche qualora in concreto il risarcimento sia diretto a reintegrare la posizione patrimoniale di individui, nei confronti di uno o più Stati e non, come si vuole nella specie che ci occupa, direttamente nei confronti degli individui.
Non mi sembra, tuttavia, che possa farsi astrazione dalle specificità e peculiarità del sistema giuridico comunitario. Tale sistema è sì fondato, per quanto qui rileva, su una base convenzionale. Il trattato, come anche altri accordi istitutivi di organizzazioni internazionali, contiene una serie di obblighi degli Stati membri in rapporto alla realizzazione dei fini enunciati e liberamente sottoscritti, nonché al funzionamento di una struttura istituzionale con competenze in grandissima parte, ma non interamente, predefinite. Tuttavia, il fine peculiare e ultimo della base convenzionale è, nel caso della Comunità, quello dell’integrazione e precisamente quello di ‘‘porre le fondamenta di una unione sempre più stretta tra i popoli europei’’, tra l’altro attraverso la realizzazione del mercato comune. Ne consegue che gli strumenti tradizionali, diciamo pure internazionalistici, predisposti per conseguire il corretto e puntuale adempimento degli obblighi da parte degli Stati membri si sono tradotti e si traducono in permanenza per moltissima parte, nell’attribuzione della massima e diretta rilevanza alla posizione giuridica dei singoli. La ragione è che gli obblighi degli Stati e delle istituzioni comunitarie sono finalizzati soprattutto, in un sistema quale voleva e vuole essere quello comunitario, alla creazione di diritti dei singoli. Questo è il quadro disegnato dagli autori del trattato e consolidato dal legislatore comunitario.
40. La corte, in una giurisprudenza fin troppo nota, si è limitata a prendere atto di questa precisa volontà degli autori del trattato e successivamente del legislatore ed ha rilevato che il trattato Ce ha istituito un ordinamento giuridico proprio, ‘‘a favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato, sia pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani’’. I soggetti di tale ordinamento sono non soltanto gli Stati ma anche gli individui, ai quali il diritto comunitario conferisce dei diritti che entrano a far parte del loro patrimonio giuridico: diritti che sorgono non solo nei casi in cui siano espressamente menzionati dal trattato, ma anche in relazione agli obblighi che quest’ultimo impone ai singoli, agli Stati membri ed alle istituzioni comunitarie.
41. Deve pertanto riconoscersi, rispetto a norme – quelle comunitarie – che regolano la situazione dei singoli e di cui è riconosciuta la prevalenza su quelle interne, che una pretesa e generale irresponsabilità del legislatore nazionale sarebbe priva di giustificazione. L’idea stessa della responsabilità dello Stato legislatore in rapporto agli obblighi imposti dal diritto comunitario, e dunque sottoscritti convenzionalmente dagli stessi Stati o posti in essere con i procedimenti ulteriori all’uopo predisposti, è invece perfettamente coerente – e per ciò stesso inerente – ai caratteri fondamentali e tipici del sistema giuridico comunitario.
42. In definitiva, anche alla luce della pronuncia Francovich, ma già in ragione della peculiarità del sistema giuridico comunitario considerato nel suo insieme, è del tutto irrilevante che l’illecito sia imputabile al legislatore ovvero all’esecutivo.
In ogni caso, poi, il problema della responsabilità dello Stato legislatore è superato nelle ipotesi in cui l’illecito si colleghi a norme provviste di effetto diretto. L’affermazione della corte secondo cui ‘‘sarebbe peraltro contraddittorio statuire che i singoli possono invocare dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva aventi i requisiti sopramenzionati, allo scopo di far censurare l’operato dell’amministrazione, e al contempo ritenere che l’amministrazione non sia tenuta ad applicare le disposizioni della direttiva disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi’’, implica infatti che anche alla pubblica amministrazione incombe l’obbligo di garantire la tutela dei diritti che i singoli vantano in forza di norme comunitarie provviste di effetto diretto. Ne consegue, in tale prospettiva, che all’occorrenza è ben possibile far valere la responsabilità della pubblica amministrazione per aver quest’ultima emanato provvedimenti lesivi in esecuzione di una legge che si pretende incompatibile con il diritto comunitario, ovvero e comunque per avere essa applicato una tale legge.
In questo senso, ad esempio, sembra essersi orientato il Conseil d’État francese, che ha dedotto la responsabilità dello Stato dalla violazione (faute) dell’autorità amministrativa, almeno nell’ipotesi in cui quest’ultima abbia fatto uso del potere discrezionale concessole da una legge interna contraria al diritto comunitario. Vero è che in ipotesi di questo tipo l’origine della responsabilità risiede pur sempre in un comportamento illecito imputabile al legislatore e cioè in una legge incompatibile con il diritto comunitario. Tuttavia, che l’imputazione all’amministrazione sia un ‘‘indispensabile’’ espediente, processuale e/o sostanziale, per far rispondere il legislatore ovvero il corretto modo di procedere, spetta evidentemente al diritto nazionale stabilirlo.
43. Ciò che il diritto comunitario esige, per quanto qui rileva, è che siano comunque predisposti gli strumenti necessari affinché il singolo possa chiedere, e possibilmente ottenere, il risarcimento dei danni subiti a seguito di violazioni del diritto comunitario. Al riguardo, peraltro, va ben precisato che il problema della determinazione di un rimedio giurisdizionale che non sia già conosciuto o consentito nei sistemi giuridici degli Stati membri non è insuperabile, né è un problema nuovo. Non lo è in ragione dei dati specifici qui in esame; non lo è anche perché è stato già superato dalla corte in alcuni passaggi storici e incontestati dalla sua giurisprudenza.
Lo testimoniano, in particolare, casi quali Simmenthal e Factortame I, in entrambi i quali si chiedeva alla corte se un definito rimedio giurisdizionale, la cui esperibilità era negata al giudice dal sistema processuale nazionale, potesse o dovesse essere attribuito ed attivato in forza del diritto comunitario.
44. In Simmenthal si trattava del potere del giudice italiano di disapplicare egli stesso e subito una norma nazionale in contrasto con il diritto comunitario, senza dover ricorrere al previo giudizio dinanzi alla Corte costituzionale da cui ne risultasse l’illegittimità costituzionale. Nell’ancorare al diritto comunitario il potere – dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma contrastante con quella comunitaria, sconosciuto al sistema nazionale ed anzi in presenza di una opposta, espressa e reiterata giurisprudenza del giudice costituzionale, la corte introdusse una deroga all’autonomia dello Stato membro in ordine ai mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti attribuiti al singolo dal diritto comunitario. Ed è rimarchevole, anche per l’odierno contesto, che in Simmenthal la corte abbia considerato intollerabile non la mancanza di tutela ma già un semplice ritardo nella tutela, privilegiando peraltro questo profilo rispetto ai vantaggi in termini di certezza e di definitività che pure il sistema imperniato sul giudizio di costituzionalità fino ad allora praticato indubbiamente presentava.
Nel caso Factortame I si poneva ancora una volta, esattamente come in Simmenthal, il quesito se in assenza di un potere del giudice nazionale in base al suo ordinamento giuridico – nella specie, di sospendere in via cautelare l’applicazione di una legge per sospetta ma non ancora accertata incompatibilità con il diritto comunitario – quel potere potesse trovare fondamento nello stesso diritto comunitario. La corte, come in Simmenthal, ha risposto che un ostacolo alla tutela giurisdizionale effettiva di un diritto vantato dal singolo in forza di norme comunitarie dev’essere rimosso dal giudice nazionale: e dunque disapplicata la norma che eventualmente lo prevedesse.
45. In definitiva, l’autonomia degli Stati membri quanto ai rimedi giurisdizionali per la violazione di diritti conferiti dal sistema comunitario, pure affermata dalla corte, subisce notevoli deroghe: in particolare ogniqualvolta ciò si renda indispensabile per assicurare una corretta attuazione del diritto comunitario ed una tutela completa ed effettiva dei diritti che i singoli vantano in forza di tale diritto.
È così, ad esempio, che mentre nella sentenza Salgoil la corte ha sottolineato l’obbligo dei giudici nazionali di garantire ai singoli la tutela diretta ed immediata dei loro interessi, ma precisando che ‘‘spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro di designare la giurisdizione competente e, a tale effetto, il qualificare detti diritti in base ai criteri del diritto nazionale’’, nella sentenza Bozzetti scompare tale ambiguità. Vi si riafferma, infatti, l’obbligo di garantire ‘‘in ogni caso’’ la tutela effettiva dei diritti dei singoli e che solo entro questi limiti precisi (‘‘con questa riserva’’) ‘‘non spetta alla corte intervenire nella soluzione dei problemi di competenza che può sollevare, nell’ambito dell’ordinamento giudiziario nazionale, la definizione di determinate situazioni giuridiche fondate sul diritto comunitario’’. L’inciso ‘‘con questa riserva’’ è evidentemente la chiave di lettura più rilevante, in quanto segna i limiti dell’autonomia dei sistemi nazionali; e non a caso, mi sembra, lo stesso inciso è contenuto al punto 42 della sentenza Francovich.
46. Né va dimenticato che anche il legislatore comunitario ha introdotto delle deroghe all’autonomia degli Stati membri, ad esempio in tema di appalti pubblici regolati dal diritto comunitario e proprio sotto il profilo del risarcimento del danno. Mi riferisco, evidentemente, alla direttiva del consiglio 21 dicembre 1989, n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e lavori, nonché alla corrispondente direttiva 25 febbraio 1992, n. 92/13/Cee, sui mezzi di ricorso relativi ai cosiddetti settori esclusi.
Il legislatore comunitario, di fronte ad una grande varietà di soluzioni negli ordinamenti degli Stati membri, oltre ad intervenire sugli aspetti della tutela sostanziale e dunque reale, è intervenuto, per il caso di difetto o insufficienza di tutela reale, con la previsione di un sistema, di certo sconosciuto a non pochi ordinamenti nazionali, di risarcimento del danno come conseguenza della legittimità della procedura di aggiudicazione dell’appalto.
47. In definitiva, ben può affermarsi che si tratta di un’autonomia, quella degli Stati membri quanto ai rimedi giurisdizionali per la violazione di diritti conferiti da norme comunitarie, vincolata saldamente al risultato voluto dal diritto comunitario.
Ora, nell’ipotesi di violazione di norme comunitarie da parte degli Stati, il risultato che è necessario raggiungere, per quanto in questa sede interessa, per un corretto funzionamento del sistema giuridico comunitario complessivamente considerato, è quello di fare in modo che sia ripristinata, in presenza di definiti presupposti, la stessa situazione giuridica, almeno nel suo contenuto patrimoniale, che si sarebbe avuta se lo Stato non fosse venuto meno all’obbligo impostogli dal diritto comunitario». (Omissis)».
GIORGIO VANACORE
AVVOCATO IN NAPOLI
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