L’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali pone testualmente a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo dell’atto di recesso, non deflettendo dalla regola generale dell’art. 2697 c.c., in quanto, come ha posto in chiaro la dottrina giuslavoristica, onerare il datore della prova della sussistenza dei requisiti per far luogo a licenziamento – ex art. 5 l. 604/1966 –, non equivale ad invertire l’onus probandi, ma semplicemente a richiedergli l’allegazione, in piena coerenza con l’art. 2697 c.c., del fatto costitutivo della fattispecie genetica della facoltà di licenziare, ovvero, del fatto impeditivo dell’azione di annullamento del recesso intrapresa dal lavoratore (Grandi – Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, comm. all’art. 5 l. 604/1966, Padova, 2001, 965, Centofanti, La Cassazione e i licenziamenti disciplinari, in Giur. it., 1977, I, 1, Pera, loco ult. cit., Napoli, La stabilità reale nel rapporto di lavoro, Milano, 1979, 181; contra, sul punto, la datata e superata Pret. Milano, 28 ottobre 1981).
A riprova, la giurisprudenza ha ravvisato nell’art. 5 l. 604/1966 l’applicazione della regola generale, con l’asserire:
«Nel caso in cui, impugnando un licenziamento, il lavoratore intenda ottenere l’adempimento in forma specifica del contratto, formulando la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, causa petendi è l’inesistenza in capo al datore di lavoro del potere di determinare l’estinzione del rapporto. Come dimostra anche il disposto dell’art. 5 l. n. 604/1966, peraltro meramente ricognitivo dei principi generali, il lavoratore ha soltanto l’onere di allegare e provare l’esistenza del rapporto di lavoro e l’evento di un licenziamento con determinate modalità, mentre spetta esclusivamente al datore di lavoro comprovare i fatti che radicano nel suo patrimonio il potere di determinare l’estinzione del rapporto» (Cass., sez. lav., 27 giugno 1994, n. 6172; conf., ex aliis, id., 5 giugno 1996, n. 5221).
Ciò nonostante, la Cassazione, ha recentemente accostato il citato art. 5 all’art. 1218 c.c., come testimonia la lettura di Cass., sez. lav., 17 maggio 2002, n. 7227, in Foro it., 2002, I, 2345:
«Fatti costitutivi dell’azione d’impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la sua interruzione per effetto di un licenziamento. Fatti impeditivi degli effetti giuridici che il lavoratore intende conseguire sono la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. La regola della ripartizione della prova, di cui all’art. 5 l. n. 604 del 1966 non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale dell’art. 1218 c.c. in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla controparte (art. 1223 c.c.)» (in termini, id., 22 novembre 1999, n. 12926, in Foro it., 2000, I, 74).
Non si dimentichi, infatti che l’art. 1218 costituisce la grundnorm civile d’inversione dell’onus probandi (Cass., 13 gennaio 2003, n. 298; idd., 30 maggio 2000, n. 7181; Cass., sez. lav., 22 maggio 2000, n. 6664; Cass., 15 ottobre 1999, n. 11629; idd., 9 ottobre 1997, n. 9810, 16 febbraio 1994, n. 1500).
Da ultimo, per citare due impieghi dell’art. 1218 c.c. nel diritto del lavoro, si è ritenuto che:
– il fondamento della responsabilità da licenziamento illegittimo sia regolato proprio dall’art. 1218 c.c., con inversione dell’onus probandi in favore del lavoratore ed a carico del datore, com’è parola in Cass., sez. lav., 17 febbraio 2004, n. 3114, in Ced Cassazione, 2004, che qui si trascrive: «La dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 della legge, n. 300 del 1970 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilita dal comma 4º con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa nel comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità oggettiva, atteso che l’irrilevanza degli elementi soggettivi è configurabile, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, solo limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità. La questione relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi invece regolata dalle norme del codice civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni, non introducendo l’art. 18 dello statuto dei lavoratori elementi distintivi. Ne consegue l’applicabilità dell’art. 1218 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile (conf., id., 15 luglio 2002, n. 10260)». In termini più stringati, ma del pari incisivi, Cass., sez. lav., 17 maggio 2002, n. 7227: «Il licenziamento illegittimo costituisce una forma di inadempimento contrattuale, governato dal principio generale di cui all’art. 1218 c.c. Ne consegue che, come in tutti i casi di inadempimento contrattuale, è il convenuto che deve dimostrare di avere adempiuto, ovvero di non avere potuto adempiere senza colpa. Ne discende, altresì, che spetta al datore di lavoro provare, quale fatto impeditivo della avversa pretesa, il numero di dipendenti dell’azienda».
– la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. abbia natura contrattuale: ex plurimis, Cass., sez. lav., 1 luglio 2004, n. 12093., in Rep., 2004, Lavoro e previdenza (controversie) [3880], n. 68, idd., 23 aprile 2004, n. 7730, 21 aprile 2004, n. 7629; in dottrina, tra tutti, Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Milano, 1989, 75.
GIORGIO VANACORE
AVVOCATO IN NAPOLI
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