La nullità del licenziamento derivante dalla normativa di tutela delle lavoratrici madri implica l’obbligo per il datore di lavoro di pagare le retribuzioni anche in mancanza di una richiesta di ripristino del rapporto, dovendo quest’ultimo considerarsi coma mai interrotto.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5548-2010 proposto da:
EDITORIALE CAMPI S.R.L. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOBBI GOFFREDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAFORIO GIUSEPPE, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
P.T. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CENTOFANTI SIRO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 517/2009 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 09/09/2009 r.g.n. 2/08;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/07/2012 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito l’Avvocato GOBBI GOFFREDO;
udito l’Avvocato BELVEDERE GIUSEPPE per delega SIRO CENTOFANTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 16.10.2006 il Tribunale di Perugia, pronunciando sul ricorso proposto da P.T. avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimato l’8 luglio 2002 dalla soc. Editoriale Campi a r.l., dichiarava la nullità del licenziamento per tardiva contestazione degli addebiti e ordinava la riammissione al lavoro della ricorrente; respingeva il ricorso nella parte avente ad oggetto il pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento.
Tale sentenza veniva parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Perugia che, in accoglimento dell’appello proposto dalla lavoratrice, riconosceva le retribuzioni maturate dall’epoca del licenziamento alla data della sentenza di primo grado.
I giudici di appello respingevano l’appello incidentale proposto dalla soc. Editoriale Campi, che aveva eccepito la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) per avere il Tribunale dichiarato nullo il licenziamento in mancanza di una specifica eccezione di tardività della contestazione disciplinare formulata ritualmente dalla ricorrente; la società aveva altresì dedotto che la contestazione era stata fatta in tempi congruì; che i fatti addebitati erano gravi e tali da giustificare il licenziamento anche durante lo stato di gravidanza.
Nel respingere l’appello incidentale sul vizio di ultrapetizione, la Corte di appello osservava che la P. aveva dedotto la violazione del principio di immediatezza della contestazione sin dal ricorso introduttivo. Dichiarava inammissibile, perchè generico, il motivo di appello vertente sulla fondatezza dell’eccezione.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società Editoriale Campi, che formula quattro motivi.
Resiste con controricorso P.T..
La ricorrente ha anche depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo, si denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e comunque all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di appello motivato per relationem con mero riferimento al ricorso introduttivo.
Con il secondo motivo, si deduce omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e comunque violazione dell’art. 414 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ove si ritenesse sufficiente il mero rinvio ad un atto processuale precedente, il ricorso introduttivo conteneva un assunto del tutto generico (“,… le lettere di contestazione facevano riferimento a normali vicende lavorative, peraltro neppure fresche, perchè risalenti a vario tempo prima….”) e la sentenza non aveva spiegato come, su tali basi, potesse ritenersi formulata l’eccezione di intempestività della contestazione disciplinare.
Con il terzo motivo, si lamenta violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e comunque all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il giudice di appello indicato quali fossero i principi giurisprudenziali posti a base dell’accoglimento del gravame della P. relativo alla debenza delle retribuzioni, non potendo la motivazione risolversi nel mero rinvio agli atti di parte.
Con il quarto motivo, la società denuncia omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque violazione dell’art. 414 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè, quand’anche un generico richiamo fosse idoneo a sorreggere la decisione, questa sarebbe censurabile non potendo condividersi la soluzione interpretativa secondo cui alla lavoratrice licenziata nel periodo di gravidanza competono le retribuzioni – per il periodo dal licenziamento fino alla riassunzione – senza l’offerta della prestazione lavorativa. La continuità del rapporto di lavoro che viene affermata in caso di licenziamento nullo non può comportare di per sè il diritto alle retribuzioni, in quanto queste, seppure erogate in funzione risarcitoria, devono correlarsi alla controprestazione, la quale deve essere offerta; solo nel periodo di astensione obbligatoria, e dunque nei due mesi prima del parto e nei tre mesi successivi, la donna non può nè offrire nè eseguire la prestazione lavorativa.
La società ricorrente deduce che “tutt’al più la lavoratrice potrà vedersi riconosciuta la retribuzione dovuta per il periodo di astensione obbligatoria, perchè in questo ella non può oggettivamente dare alcuna offerta di prestazione”; “nel caso di specie non potevano riconoscersi alla P. retribuzioni a far tempo dal periodo dal licenziamento (avvenuto nel sesto mese di gravidanza) e fino alla data della decisione (a ben quattro anni e mezzo dal parto) ma solo dal settimo mese di gravidanza e fino al terzo mese di maternità”.
La controricorrente ha eccepito l’inammissibilità dell’intero ricorso perchè privo della formulazione dei quesiti di diritto, dovendo condividersi l’interpretazione che ha ravvisato nel requisito di forma introdotto dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 un parametro alla stregua del quale interpretare la validità del ricorso per cassazione anche nelle ipotesi di sentenze depositate dopo il 4.7.2009; nella specie, ciò porterebbe a ravvisare una ragione di inammissibilità del ricorso in presenza di motivi cumulativi, poichè contrario alle regole di chiarezza.
L’eccezione preliminare è infondata.
L’art. 366 bis – inserito nel codice di rito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 e poi abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. D) – disponeva che, nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3, e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si dovesse concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un corrispondente principio di diritto. In ragione del disposto del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 272 la disposizione si applicarsi ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo (avvenuta il 2 marzo 2006).
La disposizione è stata abrogata ad opera della L. n. 69 del 2009, art. 47: “Le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” (avvenuta il 4 luglio 2009).
Quindi l’abrogazione dell’art. 366 bis è operante per i ricorsi proposti con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, mentre per quelli proposti antecedentemente (ma dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006) tale norma è ancora applicabile.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata, sebbene pronunciata il 10 giugno 2009, è stata pubblicata mediante deposito in cancelleria il 9 settembre 2009; pertanto, essa non soggiace alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, in quanto pubblicata successivamente al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, che ha abrogato l’art. 366 bis c.p.c.. Ne consegue che ogni richiamo alle prescrizioni formali che attengono alla formulazione del quesito di diritto è privo di fondamento.
Per quanto attiene all’assunto di inammissibilità per difetto di chiarezza, deve osservarsi che dalla promiscuità della formulazione dei motivi non discende una declaratoria di inammissibilità ogni qualvolta l’ambiguità della prospettazione possa essere superata attraverso l’interpretazione del contenuto effettivo delle doglianze.
Con i primi due motivi, si chiede a questa Corte se la motivazione della sentenza possa risolversi nel mero rinvio ad un atto processuale precedente (primo motivo) e se attenga ad un fatto decisivo l’omessa o insufficiente motivazione circa l’interpretazione della domanda introduttiva e delle relative eccezioni (secondo motivo). Con i restanti motivi, si chiede a questa Corte se la motivazione della sentenza possa risolversi nel mero rinvio ad un orientamento giurisprudenziale non specificamente indicato (terzo motivo) e se verta su un fatto decisivo l’omessa o insufficiente motivazione in merito alla questione di diritto concernente l’automatismo del diritto alle retribuzioni in caso di licenziamento nullo in difetto di offerta della prestazione lavorativa, in particolare nel caso di una donna in stato di gravidanza al di fuori del tempo della astensione obbligatoria.
Venendo all’esame del ricorso, questo involge la questione di un presunto error in procedendo in cui sarebbe incorso il giudice di merito per avere affermato l’intempestività della contestazione disciplinare senza che la parte interessata avesse formulato la relativa eccezione (da qualificare eccezione in senso stretto) nel ricorso introduttivo del giudizio.
Secondo costante giurisprudenza, è riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 il rilievo di vizi attinenti all’ultrapetizione e all’extrapetizione. Inoltre, il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti da luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) od a quello del tantum devolutum quantum appellatimi (art. 437 cod. proc. civ.), trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo, che attribuisce alla Corte di cassazione il potere- dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 17109/2009, 11755/2004, 254/2006, 409/2006). Qualora la censura relativa alla motivazione lamenti un vizio procedurale in cui sia incorso il giudice di merito (un sorta di error in procedendo indiretto, o di secondo grado), ciò consente alla Suprema Corte l’esame degli atti del giudizio di merito, al limitato fine di verificare che l’errore procedurale in cui sia eventualmente incorso il giudice di merito si sia tradotto in un vizio di motivazione (v. Cass. n. 9471 del 2004).
La doglianza della ricorrente, che in via diretta è rivolta agli aspetti motivazionali della sentenza d’appello con la denuncia del vizio di motivazione, involge, in via indiretta, l’erroneità di tale decisione sub specie della ultrapetizione, dunque un vizio procedurale, rientrando, così, nella categoria di cui al punto 4 sopraindicato.
Nel caso in esame, il rinvio generico al ricorso introduttivo contenuto nella sentenza impugnata, in assenza di qualsiasi altra specificazione, impone l’esame di tale atto da parte di questa Corte, onde riscontrare l’esistenza o meno dell’eccezione di tardività della contestazione disciplinare.
In proposito, va premesso che è irrilevante la mancanza di una formale eccezione, dovendo invece rilevarsi se la parte, pur senza necessità di ricorrere a formule rituali, avesse manifestato con chiarezza la volontà di denunciare il suddetto vizio procedimentale (Cass. n. 19159 del 2006; n. 1890 del 2009).
Dalla lettura complessiva dell’atto introduttivo, risulta che l’intero impianto argomentativo era teso a dimostrare che i fatti risalivano a diversi mesi prima della contestazione ed erano di immediato riscontro probatorio, sì che il ritardo nella contestazione disvelava l’intento effettivo della parte datoriale di rivalutarli in coincidenza con lo stato di gravidanza della ricorrente, del quale l’imprenditore aveva nelle more preso conoscenza.
La volontà di sollevare l’eccezione risultava, oltre che dalle espressioni riportare nel ricorso per cassazione, anche dalle argomentazioni che avevano posto in evidenza l’incongruità temporale tra il momento della conoscenza dei fatti e il momento del loro rilievo disciplinare: con riguardo all’addebito relativo all’omesso controllo di pagamenti di somme dovute dalla conduttrice di un immobile, la ricorrente aveva dedotto di essere stata lei stessa che “all’inizio 2002, aveva rilevato l’esistenza di alcuna anomalie nel comportamento della s.r.l. Sole Immobiliare, per cui lo aveva fatto presente al sig. C.F.” e la pratica era stata avviata al legale per l’inizio di un’azione di recupero nei confronti della società debitrice; quanto all’addebito relativo al pagamento di somme portate da due ricevute bancarie sebbene le stesse non corrispondessero a crediti effettivi, la ricorrente aveva rilevato che le ricevute bancarie erano scadute nel gennaio e nel febbraio 2002 ed aveva rimarcato l’atteggiamento di C.F., precipitatosi a muoverle contestazioni per non incorrere nella situazione di un rapporto di lavoro “permeato di un’ulteriore gravidanza”.
Pertanto, il complessivo tenore del ricorso era teso a dimostrare come la contestazione disciplinare attenesse a fatti che erano, oltre che inidonei a integrare la giusta causa, altresì risalenti ad epoca tale da lasciare intendere il disinteresse del datore di lavoro a sanzionarli, mentre l’averli rilevati successivamente poteva spiegarsi solo con la volontà datoriale di disfarsi di una lavoratrice in stato di gravidanza. Il ricorso introduttivo è stato quindi correttamente interpretato sia dal giudice di primo grado che da quello di appello e non sussiste il lamentato vizio di ultrapetizione.
In conclusione, non sussiste l’errore processuale che si asserisce commesso per avere il giudice di primo grado pronunciato ultrapetita in mancanza di una eccezione in senso proprio non espressamente formulata nel ricorso introduttivo e per avere il giudice di appello respinto il motivo con cui la questione della violazione di cui all’art. 112 c.p.c. era stata sollevava in sede di gravame.
I primi due motivi del ricorso per cassazione vanno, pertanto, respinti.
Deve pure osservarsi che la società Editoriale Campi s.r.l. ha fatto acquiescenza alla sentenza di appello nella parte in cui questa ha dichiarato inammissibile il motivo di gravame avente ad oggetto l’accoglimento dell’eccezione anzidetta. Il primo giudice aveva indicato i motivi per i quali la contestazione doveva ritenersi non tempestiva; la Corte di appello ha ritenuto che sul punto il gravame non contenesse argomentazioni specifiche, limitandosi alla mera riproposizione delle difese svolte in primo grado sul punto e sostenendo semplicemente la necessità di ponderati controlli ed approfondimenti, preliminari rispetto alla contestazione degli addebiti. Non vi erano elementi per rimettere in discussione, stante la genericità e quindi l’inammissibilità del motivo, la questione della fondatezza dell’eccezione di intempestività. Il punto non è stato investito dal ricorso per cassazione, di conseguenza si è formato il giudicato interno sulla statuizione con cui è stato ritenuto violato, nella specie, il principio dell’immediatezza della contestazione degli addebiti, da cui l’intempestività del licenziamento e il difetto di un elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro.
Il secondo gruppo di censure (terzo e quarto motivo) attiene al riconoscimento, a titolo risarcitorio, di tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento alla sentenza di primo grado.
E’ ben vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non adempie il dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamente acquisiti senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta; in una situazione di tal tipo, infatti, il sillogismo che distingue il giudizio finisce per essere monco della premessa minore e, di conseguenza, privo della conclusione razionale (Cass. n. 11710 del 2011). Tuttavia, tale situazione nella fattispecie in esame non ricorre, in quanto la decisione impugnata ha richiamato i principi giurisprudenziali che la stessa P., appellante principale, aveva indicato a sostegno della sua doglianza relativa al mancato riconoscimento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento senza necessità di un atto di messa in mora del datore di lavoro. La motivazione della sentenza contiene una chiaro riferimento alla giurisprudenza espressa in materia di licenziamento nullo perchè intimato durante lo stato di gravidanza della lavoratrice (“con l’appello principale la P. … ha comunque rilevato la contrarietà di tale decisione rispetto a tutta la consolidata elaborazione giurisprudenziale, in base alla quale la lavoratrice licenziata in stato di gravidanza non ha alcuna necessità di fare offerta della propria prestazione. La censura è completamente fondata…ed è qui inutile riportare i principi giurisprudenziali in materia, ampiamente citati nel ricorso in appello ed a tutti noti”).
E’ evidente che non si versa in una situazione di motivazione apparente, essendo stata indicata la fattispecie legale cui atteneva l’orientamento giurisprudenziale condiviso e nella quale era ritenuta sussumibile la fattispecie concreta e tale giudizio espresso dal giudice di merito non è stato specificamente censurato in sede di ricorso per cassazione.
Va pure osservato che soddisfa l’obbligo di motivazione la sentenza del giudice di merito che, in punto di diritto e sulla questione discussa e decisa, abbia riportato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, dichiarando di condividerlo e di volervisi uniformare, in quanto anche in tal caso e con tali modalità risultano esposte, sia pure sinteticamente, le ragioni giuridiche della decisione (Cass. n. 13066 del 2007).
Anche il terzo motivo è, dunque, infondato.
In ordine al quarto motivo, deve osservarsi che i principi di diritto di cui il giudice di appello ha fatto applicazione nel caso in esame sono quelli affermati dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la nullità del licenziamento derivante dalla normativa di tutela delle lavoratrici madri comporta l’obbligo datoriale di pagare le retribuzioni anche in mancanza di richiesta di ripristino del rapporto, dovendo il rapporto ritenersi come mai interrotto (cfr.
Cass. n. 6595 del 2000; n. 1312 del 1998, n. 16189 del 2002, n. 10531 del 2004, nn. 426 e 10139 del 2005). Il licenziamento intimato in violazione delle norme anzidette è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione dal mancato guadagno (Cass. n. 18537 del 2004). La nullità è comminata per il solo fatto che il licenziamento viene intimato nell’arco temporale protetto, risultando, pertanto, tale declaratoria del tutto svincolata dalle motivazioni – eccetto l’ipotesi della giusta causa – che l’abbiano determinato e, tra l’altro, indipendentemente dall’elemento psicologico del recedente.
Al riguardo, la società ricorrente non ha addotto argomenti atti a contrastare le ragioni su cui l’orientamento giurisprudenziale anzidetto si fonda, limitandosi ad opporre una propria diversa soluzione interpretativa, del tutto svincolata dall’esame e dalla confutazione della giurisprudenza costante.
Il motivo è dunque inammissibile, in quanto la condizione di ammissibilità del ricorso, indicata nell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, introdotta dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, non è integrata dalla mera dichiarazione, espressa nel motivo, di porsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, laddove non vengano individuate le decisioni e gli argomenti sui quali l’orientamento contestato si fonda (Cass. n. 3142 del 2011).
In conclusione, il ricorso va respinto, con onere delle spese a carico della società ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 40,00 per esborsi e Euro 3.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.
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