Cassazione, sez. II, 11 luglio 2011, n. 15186

(Pres. Triola – Rel. Petitti)

 Svolgimento del processo

 Con citazione notificata il 19 aprile 1995, M.D.B.A., proprietaria di un appartamento sito in (omissis), conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Roma, D.A., proprietaria dell’appartamento sottostante, chiedendo che venisse condannata alla demolizione della veranda che la stessa aveva realizzato sul proprio balcone in violazione delle norme sulle distanze.

Costituitasi in giudizio, la D. contestava la domanda eccependo in via preliminare la prescrizione ventennale del diritto dell’attrice, e deducendo che era stata autorizzata dal condominio a ristrutturare la veranda.

L’adito Tribunale, con sentenza depositata il 7 marzo 2001, in parziale accoglimento della domanda attrice, condannava la D. ad eliminare dalla veranda costruita sul suo

terrazzo la copertura in eternit e a costruire il tetto in vetro.

Avverso questa sentenza ha proposto appello la M..

Nella resistenza della D., la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 19 gennaio 2005, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato la D. al ripristino dello stato dei luoghi previa demolizione della veranda.

La Corte d’appello ha innanzitutto ritenuto che le delibere dell’assemblea del condominio di via del … non potevano incidere sui diritti esclusivi dei condomini, a meno che le limitazioni alle rispettive proprietà esclusive non fossero state convenzionalmente accettate. Ha quindi rilevato che l’assemblea del 26 marzo 1985 “autorizzò la Sig.ra D. ad installare una veranda in vetro e alluminio anodizzato sul proprio balcone” solo dietro regolare autorizzazione preventiva della autorità comunali e nel rispetto dei diritti dei terzi e dei condomini; che, successivamente, la medesima assemblea prese atto della mancata ottemperanza a quanto in precedenza deliberato, sia perché la veranda non presentava una copertura in vetro, sia perché non era stata esibita all’amministratore la necessaria concessione edilizia, e diede mandato all’amministratore di diffidare la D. ad ottemperare a quanto deliberato; che la D. procedette ad un nuovo intervento edificatorio, ripristinando la copertura con tetto in eternit ondulato, realizzando in tal modo una vera, e propria costruzione, appoggiata per un lato al muro comune dell’edificio condominiale e, per l’altro, al muretto di recinzione del proprio balcone; che nel giudizio di primo grado, in sede di accertamento tecnico, era emerso che la veranda era stata realizzata senza il rispetto delle distanze legali previste in altezza (tre metri dalla soglia del piano superiore: art. 907, terzo comma, cod. civ.), a tutela del diritto di veduta diretta e obliqua del proprietario del piano superiore, in quanto tra la tettoia del manufatto e la soglia della finestra della M. vi era una distanza in verticale di un metro.

La Corte d’appello ha pertanto ritenuto fondato il gravame, disattendendo la deduzione dell’appellata circa la preesistenza della veranda, osservando in proposito che nello stesso atto di acquisto del 2 febbraio 1979 non vi era alcuna menzione della preesistenza di una veranda coperta, essendovi solo il riferimento a un terrazzo a livello. I testi escussi, poi, avevano escluso la esistenza di una veranda sul terrazzo dell’appellata nel periodo in cui loro stessi avevano occupato quell’appartamento, e cioè dal 1967 al 1986, Solo nel 1985 del resto l’appellata chiese al condominio l’autorizzazione ad installare ex novo nella propria terrazza una veranda e non già a procedere all’ammodernamento o alla ristrutturazione della veranda preesistente.

Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso D.A. sulla base di tre motivi, cui ha resistito, con controricorso, A..M.D.B..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 907 e 1135 c.c., nonché contraddittorietà della motivazione.

Richiamata la delibera dell’assemblea condominiale del 26 marzo 1985, e in particolare la parte del verbale in cui si dava atto che “il condominio si esonera di ogni lite che verrà rivolta alla sig.ra D. da eventuali terzi e non riconoscerà danni che verranno causati dalla suddetta veranda”, la ricorrente censura la sentenza impugnata laddove, nel riportare il contenuto della citata delibera assembleare, aveva ritenuto che la stessa avesse fatto salvi i diritti anche dei condomini, non potendo questi ultimi essere qualificati terzi rispetto alla deliberazione assunta dall’assemblea condominiale. Ove la Corte d’appello avesse rettamente inteso il senso della delibera, avrebbe dovuto concludere che nella specie i condomini avevano autorizzato la realizzazione della veranda e contestualmente accettato il conseguente ampliamento dell’uso della cosa comune in suo favore. La stessa M., del resto, aveva prestato il proprio consenso alla citata delibera e non aveva quindi contestato il diritto di essa ricorrente di realizzare la veranda. L’unica condizione apposta era quella che essa si munisse delle necessarie autorizzazioni comunali, ma nessuna riserva era formulata quanto all’osservanza delle norme sulle distanze, sicché la M. non era più legittimata a contrastare l’uso della cosa comune da parte di essa ricorrente, avendo accettato la limitazione al bene di proprietà esclusiva. Non a caso, quindi, nella delibera assembleare si facevano salvi i diritti dei terzi, avendo i condomini già manifestato la propria volontà in ordine alla realizzazione della veranda e alle conseguenti limitazioni ai propri diritti.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 907, 1102 e 1122 c.c., nonché vizio di omessa e contraddittoria motivazione.

Premesso che ciascun condomino ha diritto di trasformare in veranda il balcone di sua proprietà senza dover richiedere l’autorizzazione degli altri condomini prevista dal regolamento del condominio soltanto per le innovazioni delle parti comuni degli edifici, la ricorrente osserva che, nel caso di specie, la M., nell’appartamento soprastante, aveva in corrispondenza della terrazza a livello solo una finestra distante dalla soglia del balcone circa quattro metri. La violazione di tale distanza, peraltro, non era stata contestata ad essa ricorrente né dalla successiva assemblea del condominio (giugno 1985) né nella diffida inviatale dall’amministratore, sicché doveva ritenersi che nell’assemblea del 26 marzo 1985 ella era stata autorizzata a realizzare la veranda prescindendo dall’osservanza delle norme sulle distanze. Del resto, nella situazione data, l’osservanza di dette norme avrebbe comportato che la veranda, pure autorizzata dal condominio, avrebbe potuto avere un’altezza non superiore ad un metro.

Con il terzo motivo, la ricorrente deduce erroneità della statuizione per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

La censura si riferisce al capo della sentenza relativo alla reiezione delle eccezioni formulate da essa ricorrente in ordine alla preesistenza della veranda. In proposito, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe tenuto conto solo di alcune deposizioni e non di altre e rileva che comunque dalle dette deposizioni non emergeva con certezza che la veranda non fosse stata realizzata in epoca anteriore al 1985. Anzi, posto che i testi avevano fatto riferimento alla circostanza che la veranda sarebbe stata realizzata senza autorizzazione, la collocazione temporale di detta realizzazione avrebbe dovuto essere senz’altro anteriore al 1985. Inoltre, la Corte non avrebbe tenuto conto di una lettera del 1993, a firma del procuratore della dante causa di essa ricorrente, nella quale si faceva riferimento alla esistenza, negli anni ‘70, di una veranda a copertura della terrazza a livello.

Del resto, il Tribunale aveva ritenuto provato che la realizzazione della veranda risalisse ad un periodo compreso tra il 1939 e il 1949, e la Corte d’appello sul punto non ha offerto alcuna motivazione idonea a supportare il suo diverso convincimento.

Il primo e il secondo motivo, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

La Corte d’appello ha infatti correttamente applicato, nel caso di specie, i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità. In primo luogo, la Corte d’appello ha correttamente affermato che il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale non può eseguire nella sua proprietà esclusiva opere che, in contrasto con quanto stabilito dalla norma dell’art. 1122 c.c., rechino danno alle parti comuni dell’edificio stesso, né, a maggior ragione, opere che, attraverso l’utilizzazione delle cose comuni, danneggino le parti di una unità immobiliare di proprietà esclusiva di un altro condomino (Cass. n. 1132 del 1985).

Ha quindi rilevato che il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non è soggetto, rispetto a questa, all’osservanza delle distanze prescritte dall’art. 907 cod. civ. nel caso in cui la veranda insista esattamente nell’area del balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del balcone sovrastante, giacché l’art. 907 citato non attribuisce a quest’ultimo la possibilità di esercitare dalla soletta o dal parapetto del suo balcone una inspectio o prospectio obliqua verso il basso e contemporaneamente verso l’interno della sottostante proprietà (Cass. n. 3109 del 1993). Da ciò ha tratto coerentemente la conseguenza della illegittimità della condotta della ricorrente, la quale ha realizzato sul proprio terrazzo una veranda pur in assenza al piano soprastante di un balcone aggettante.

La Corte territoriale ha poi esaminato la delibera assembleare del 1985 e ha correttamente escluso che la stessa potesse avere efficacia abilitativa della installazione di una veranda che avesse effetti pregiudizievoli per uno dei condomini. Tale affermazione, a prescindere dal rilievo, sul quale la ricorrente ha particolarmente insistito, che la deliberazione assembleare non conteneva la clausola di salvezza dei diritti dei condomini che invece la Corte d’appello ha ritenuto esplicitata, non contrasta con i principi della giurisprudenza di legittimità in materia. È noto, infatti, che l’assemblea condominiale non può assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni (Cass. n. 7603 del 1994).

Le limitazioni al contenuto dei diritti di proprietà esclusiva spettanti ai singoli condomini – quali quelle consistenti nel divieto di dare alle singole unità immobiliari una o più destinazioni possibili, per l’utilità generale dell’intero edificio – introdotte con un regolamento di condominio approvato in assemblea, poiché generano dal lato passivo degli oneri reali incidendo sulla proprietà dei singoli, richiedono, a pena di nullità, l’unanimità dei consensi dei condomini e nel caso che taluno di essi si sia fatto rappresentare in assemblea è necessario che il conferimento del mandato risulti da atto scritto secondo la previsione di cui agli artt. 1392 e 1350 c.c. (Cass. n. 7630 del 1990). Infatti, le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e la destinazione delle parti dell’edificio di proprietà esclusiva, distinguendosi dalle norme regolamentari, che possono essere approvate dalla maggioranza dell’assemblea dei condomini, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere, pertanto, accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati ; se deliberate, invece dall’assemblea, debbono essere approvate all’unanimità, dovendo, in mancanza, considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei poteri dell’assemblea (Cass. n. 4632 del 1994).

Orbene, neanche la ricorrente assume che siffatte condizioni per la validità della limitazione al diritto di proprietà esclusiva del singolo condomino siano state nel caso di specie rispettate. Non si deduce, infatti, né l’unanimità della presenza dei condomini alla assemblea, né, soprattutto, che il consenso della resistente alla installazione di una veranda che sarebbe stata lesiva del proprio diritto di proprietà esclusiva, sia stato manifestato in forma scritta.

Con particolare riferimento alle censure svolte dalla ricorrente nel secondo motivo, deve poi rilevarsi che la Corte d’appello ha correttamente affermato che le norme sulle distanze delle costruzioni dalle vedute si osservano anche nei rapporti tra condomini di un edificio in quanto l’art. 1102 cod. civ. non deroga al disposto dell’art. 907 c.c. (Cass. n. 4190 del 2000) e ha ritenuto quindi che nel caso di specie la denunciata violazione si sia verificata, atteso che la veranda realizzata dalla ricorrente si collocava alla distanza di un metro dal balcone dell’appartamento della resistente.

I primi due motivi di ricorso sono infondati.

Il terzo motivo è inammissibile.

La Corte d’appello ha preso in considerazione tutte le eccezioni fatte valere dalla appellata al fine di sostenere la preesistenza della veranda, in epoca anteriore al 1985; ha quindi esaminato l’atto di acquisto del 1979, nel quale non era contenuto alcun riferimento alla esistenza di una veranda; ha poi esaminato le deposizioni rese nel corso del giudizio di primo grado e anche da tali risultanze ha tratto il convincimento che alla data del 1985 la veranda non fosse esistente; ha in particolare rilevato che lo stesso contenuto della deliberazione assembleare invocata dalla ricorrente a sostegno della propria posizione si riferiva alla installazione e, quindi, alla costruzione ex novo del manufatto.

A fronte di tali specifiche argomentazioni, la ricorrente oppone una diversa, ma inammissibile in sede di legittimità, lettura delle risultanze istruttorie, volta a dimostrare la fondatezza del proprio assunto, dolendosi in particolare del fatto che la Corte d’appello abbia dato rilievo ad alcune deposizioni soltanto e che non abbia valutato quanto affermato nella sentenza di primo grado, nella quale si riferiva l’esistenza della veranda ad un’epoca assai risalente.

È noto, del resto, che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (da ultimo, Cass. n. 6288 del 2011; Cass. n. 27162 del 2009).

D’altra parte, deve ricordarsi che è altrettanto consolidato il principio per cui “l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 12362 del 2006).

Orbene, risulta evidente la non riconducibilità ai limiti dello scrutinio consentito in sede di legittimità delle censure svolte dalla ricorrente sul punto, comporta l’inammissibilità del motivo.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

 

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