53_51827f8272a23In ragione della regola dell’ultrattività del mandato alla lite, nel caso in cui gli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. (morte o perdita di capacità della parte) non vengano dichiarati, è ammissibile il ricorso per Cassazione notificato, nel caso di specie, alla parte deceduta presso il procuratore nominato per il precedente grado di giudizio, il difensore continua, pertanto, a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato. Ne consegue che la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, a norma dell’art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace.

Cass. civ. Sez. Unite, 04/07/2014, n. 15295 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. ADAMO Mario – Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10181/2007 proposto da:

C.A.M., T.N., nella qualità, 2014 elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CELIMONTANA 167 38, presso lo studio dell’avvocato PANARITI BENITO, rappresentati e difesi dall’avvocato INSANGUINE DOMENICO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.M.M. (OMISSIS), D.M.N., nella qualità di eredi di D.M.R., elettivamente domiciliati in ROMA, CIRCONVALLAZIONE OSTIENSE 114, presso lo studio dell’avvocato STAFFIERE PATRIZIA, rappresentati e difesi dall’avvocato SALERNO GIUSEPPE, per delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

T.A., T.F.E., T.A.M. (tutti in proprio e nella qualità di eredi di T.L.);

– intimati –

avverso la sentenza n. 1285/2006 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 28/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2014 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

udito l’Avvocato Domenico INSANGUINE;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – La vicenda processuale e l’ordinanza di rimessione alle SU. T.N. ed C.A.M. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, notificando l’impugnazione, il 26 marzo 2007, al procuratore di D. M.R., deceduto il (OMISSIS). Le conclusioni erano state rassegnate nell’udienza del 5 ottobre 2005 e nell’udienza del 17 ottobre 2006 la causa era stata discussa e rimessa al collegio per la decisione. Il D.M. è, dunque, deceduto prima della pubblicazione della sentenza di appello, avvenuta il 28 dicembre 2006.

Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione civile e fissato per la trattazione all’udienza del 20 marzo 2013. All’esito di quest’ultima, il Collegio ha pronunciato ordinanza interlocutoria n. 10216, depositata il 30 aprile 2013, nella quale si è posta, preliminarmente, la necessità di esaminare se l’invalidità che vizia il ricorso, indirizzato alla parte ormai defunta, presso il suo procuratore, possa considerarsi sanata dalla costituzione degli eredi della stessa.

In particolare, per un più preciso inquadramento dei presupposti di fatto della rilevata problematica, l’ordinanza di rimessione ha premesso: a) che la causa è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla L. n. 353 del 1990, e successive integrazioni; b) che D.M.R. è deceduto prima della pubblicazione della sentenza di secondo grado; c) che il ricorso è stato notificato al procuratore dello stesso, pur dopo l’avvenuto decesso; d) che il controricorso delle parti che si sono dichiarate eredi del de cujus è stato notificato prima del decorso del termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata la sentenza di appello; e) che i controricorrenti hanno ritenuto di provare la propria qualità di eredi mediante la produzione del certificato di morte del de cujus, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la composizione del nucleo familiare del defunto e la rinunzia all’eredità da parte della madre, moglie dello stesso.

Ciò posto, e ritenendo sussistere il vizio della vocatio in jus del ricorso (indirizzato ad un soggetto oramai defunto), l’ordinanza interlocutoria ha evidenziato che, fino ad epoca recente, costituiva principio consolidato che la costituzione degli eredi della parte defunta avesse un effetto sanante: a) dalla notifica del controricorso – e quindi ex nunc – se effettuata nel vigore dell’art. 164 c.p.c., anteriore alle modifiche operate con L. n. 353/1990 (sempre che fosse stato rispettato il termine lungo dalla pubblicazione della sentenza); b) dalla notifica del ricorso – e quindi ex tunc – se relativa alle cause c.d. di nuovo rito (in argomento, sono citate, tra le varie, Cass. n. 776 del 2011; n. 23522 del 2010; n. 13395 del 2007; n. 7981 del 2007; n. 21550 del 2004; n. 6045 del 2003).

Ha però osservato che, con la statuizione delle Sezioni Unite del 13 marzo 2013, n. 6070, la soluzione – in termini di sanatoria – sopra prospettata è stata sostanzialmente rimessa in discussione, quale necessario portato logico della dichiarata applicabilità dei principi successori nella fattispecie in cui, all’estinzione di una società, a seguito di cancellazione, fossero sopravvissute o sopravvenute delle entità patrimoniali non interessate dal procedimento liquidatorio. Sentenza nella quale s’è, infatti, affermato che la erronea evocazione in giudizio di una parte che non sia la “giusta parte” non comporta la nullità della vocatio in jus, e quindi la conseguente possibilità di sanatoria a seguito della costituzione della parte pretermessa, quanto piuttosto la inammissibilità del ricorso stesso, da dichiararsi anche di ufficio, dunque mettendo sull’identico piano il vizio dell’atto con le conseguenze che da esso deriverebbero.

Secondo l’ordinanza interlocutoria in esame, tale affermazione sembrerebbe implicitamente presupporre che, nel caso sopra divisato, il vizio consista nella radicale inesistenza della vocatio in jus, tale dunque da non consentire l’applicazione della sanatoria prevista dall’art. 164 c.p.c., e, per logica conseguenza, il ricorso che ne sia affetto sarebbe, sempre e comunque, inammissibile.

La sezione è mossa dalla considerazione che nella decisione delle Sezioni Unite appena riportata non si rinviene alcun cenno volto a restringere al caso lì affrontato la sfera di applicazione della regula juris riferita; ne appare al contrario una portata generale, dunque applicabile anche ai casi di successione di persone fisiche nel processo: questo, perchè dalla decisione emergono richiami a precedenti pronunce di legittimità, lì disattese, che trattavano l’ipotesi di citazione di parti defunte con successiva costituzione degli eredi (in particolare, SU n. 6070 del 2013 faceva riferimento a Cass. n. 7981 del 2007 ed a Cass. n. 13395 del 2007).

Il collegio della seconda sezione civile ha così ritenuto che la generalità della conclusione sulla non applicabilità della sanatoria, contenuta nella sentenza n. 6070 del 2013, non abbia formato, di per sè, oggetto di intervento regolatore di conflitti e la questione si presti perciò ad una nuova e diversa valutazione da parte delle stesse Sezioni Unite: ciò nel senso di una conferma della soluzione sinora adottata dalle sezioni semplici in materia di sussistenza del vizio di nullità e della sua sanabilità.

Ad identica soluzione, peraltro, dovrebbe pervenirsi, ad avviso della medesima ordinanza, anche se si volesse ricostruire il vizio in termini di inesistenza della vocatio; cosa peraltro difficilmente ipotizzabile, stante la continuazione della personalità del defunto in quella dell’erede. Invero, tale pur radicale vizio non comporterebbe, per sè, che all’atto non si possano ricollegare gli effetti cui era stato rivolto: non si potrebbe infatti negare rilevanza alla costituzione della “giusta parte”, giacchè tale costituzione soddisferebbe comunque l’esigenza che al giudizio partecipino tutti i soggetti che avevano diritto di esservi presenti, così dandosi applicazione, come riferimento interpretativo, al principio del c.d. giusto processo.

Per tali ragioni, quindi, la Seconda Sezione Civile ha ritenuto “…

necessario un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni Unite che precisi se i principi affermati con la sentenza n. 6070/2013 espressamente in materia societaria, comportanti la drastica sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione, siano del tutto estensibili anche alle vicende successorie delle persone fisiche…”, ipotesi, questa, che -prosegue la citata ordinanza interlocutoria – “…suscita notevoli perplessità segnatamente nei casi in cui – come nella specie – ad una impugnazione mal diretta, cui ha contribuito anche la mancata dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo, abbia fatto seguito l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta, a seguito della costituzione dei medesimi, in considerazione della quale l’impugnante, pur essendo ancora nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi abbia provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità, all’epoca di gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria in detta tempestiva costituzione…”, sicchè, evidenziando “… la rilevante importanza della questione, in quanto relativa a situazioni frequentemente riscontrabili nell’ambito dei giudizi in cassazione, in massima parte relativi a vicende processuali risalenti nel tempo…”, ha rimesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, al fine di risolvere il descritto conflitto interpretativo o comunque per delineare il principio di diritto sulla corrispondente questione di massima di particolare importanza.

2. – Le questioni – Premesse.

Riassumendo, la questione sottoposta all’esame delle SU riguarda, dunque, il caso in cui: a) la parte, costituita in appello a mezzo di procuratore, muoia prima dell’udienza di discussione e risulti vittoriosa nel grado; b) l’evento non sia stato nè dichiarato in udienza, nè notificato alla controparte; c) quest’ultima proponga ricorso per cassazione contro la parte deceduta, notificandolo a colui che era stato suo procuratore nel precedente grado di giudizio;

d) gli eredi si difendano con controricorso, notificandolo prima della scadenza del termine lungo per impugnare. Per questa ipotesi, si chiede di sapere se il ricorso per cassazione sia affetto da vizio della vocatio in ius ed, in caso positivo, se la suddetta difesa degli eredi (non si può parlare di costituzione in giudizio, posto che quest’istituto non è previsto nel giudizio di legittimità) abbia efficacia sanante di quel vizio.

La perplessità del collegio remittente sorge dalla consapevolezza che la giurisprudenza s’era assestata negli ultimi anni nel senso di ritenere che detta difesa (e, dunque, la costituzione di un integro contraddittorio nei confronti degli eredi del defunto) avesse efficacia sanante rispetto ad un vizio di chiamata in giudizio che difficilmente può essere definito in termini di inesistenza, in quanto, alla fine, hanno partecipato al giudizio coloro che ne avevano diritto. Consapevolezza che il collegio remittente ritiene essere stata posta in crisi dal sopravvento di Cass. SU n. 6073 del 2013, la quale, pur trattando di società estinta (ma il discorso sembrerebbe al collegio remittente poter essere esteso anche alla persona fisica defunta), ha configurato il vizio stesso in termini tali da farne derivare la drastica inammissibilità del ricorso per cassazione.

Ora, prima di avvicinarsi alla disamina della questione ed alla sua soluzione, occorre fare alcune premesse circa quello che sarà l’oggetto e lo sviluppo del futuro ragionamento.

Il quesito qui posto coinvolge solo un aspetto delle conseguenze processuali derivanti dalla morte o dalla perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentate o dalla cessazione della rappresentanza (ossia di quegli eventi che sono elencati nell’art. 299 c.p.c.); piuttosto, la problematica coinvolge un autonomo sottosistema, nell’ambito del più vasto sistema processuale.

Bisogna, infatti, tener conto che lo studio del fenomeno coinvolge il tema dell’individuazione della giusta parte, quale corollario del giusto processo, nonchè la definizione dei poteri e della legittimazione del difensore della parte stessa. Pertanto, bisogna l’indagine va estesa ai seguenti casi:

1. notificazione dell’atto d’impugnazione alla parte defunta o divenuta incapace, presso il suo difensore nel grado precedente;

2. notificazione della sentenza al procuratore della parte defunta o divenuta incapace, ai fini del decorso del termine breve per impugnare;

3. proposizione dell’impugnazione da parte del difensore della parte defunta o divenuta incapace.

L’inizio del percorso richiede, poi, un’ulteriore premessa.

Quella di cui si discute è una delle problematiche più studiate e dibattute del processo civile, segnalata come “una storia infinita”, dipanatasi attraverso un emblematico esempio di “pendolarismo giurisprudenziale”. La puntuale relazione dell’Ufficio del Massimario ricostruisce l’evoluzione (talvolta, l’involuzione) della giurisprudenza, dagli anni ’40 del secolo scorso fino ai nostri giorni, il frequente ripensamento (ad opera delle sezioni semplici della Corte o delle stesse Sezioni Unite) di approdi che, di volta in volta, erano sembrati definitivamente raggiunti, il districarsi del discorso attraverso una serie di rivoli, eccezioni, condizioni che hanno reso la materia quanto mai incerta. Tant’è che la stessa ordinanza di remissione fa riferimento all’affidamento che riponeva la parte in una giurisprudenza che ammette(va) la sanatoria del vizio di chiamata in giudizio, nell’ipotesi che vi si fossero costituiti gli eredi della parte premorta alla pubblicazione della sentenza.

D’altro canto, all’incertezza giurisprudenziale ha corrisposto la mancanza di chiari indirizzi dottrinari, in sede manualistica come in quella monografica, dovendosi piuttosto rilevare l’assenza di uno studio che ricostruisca in maniera organica e complessa l’intera materia alla quale si fa riferimento.

3. – La disciplina codicistica in relazione alle varie fasi del rapporto processuale.

Nel codice di rito l’incidenza di uno degli eventi previsti nell’art. 299 (morte o perdita di capacità di una delle parti di stare in giudizio o del suo rappresentante legale o cessazione di tale rappresentanza) non è regolata in modo unitario, ma ha discipline diversificate, con varietà d’effetti, a seconda che l’evento si verifichi in una o altra fase di quel rapporto.

La scansione normativa, con riferimento ad uno dei suddetti eventi, è la seguente:

1. Evento verificatosi prima della costituzione – interruzione del processo, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione (art. 299, comma 1);

2. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituita a mezzo di procuratore – dichiarazione del procuratore in udienza o notifica alle altre parti – interruzione del processo dal momento della dichiarazione o della notificazione (art. 300, commi 1 e 2);

3. Evento avveratosi nei riguardi della parte costituitasi personalmente – interruzione del processo dal momento dell’evento (art. 300, comma 3);

4. Evento avveratosi nei riguardi della parte dichiarata contumace – interruzione del processo dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte o è notificato o è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti dell’art. 292 (art. 300, comma 4, nella novella di cui alla L. n. 69 del 2009);

5. Evento avveratosi o notificato dopo la chiusura della discussione – inefficacia sul processo, se non nel caso di riapertura dell’istruzione (art. 300,5), tuttavia in quest’ipotesi la notificazione della sentenza “si può fare… a coloro ai quali spetta stare in giudizio”, cioè agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di essi, oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto (art. 286, in relazione all’art. 303).

6. Parte defunta dopo la notificazione della sentenza – l’impugnazione può essere notificata collettivamente ed impersonalmente agli eredi: nella residenza dichiarata dalla parte o nel domicilio eletto nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza, se nell’atto di notificazione della sentenza è contenuta quella dichiarazione o quella elezione; altrimenti, l’impugnazione può essere notificata presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio (art. 330).

7. Evento sopravvenuto durante la decorrenza del termine breve per impugnare -interruzione del termine e nuova decorrenza dal giorno in cui la notificazione della sentenza è stata rinnovata (art. 328, comma 1) – la rinnovazione “può essere fatta agli eredi collettivamente e impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto” (art. 328, comma 2);

8. Evento verificatosi dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza – il termine lungo per impugnare (art. 327) è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento (art. 328, comma 3). A riguardo, occorre però riflettere sull’attuale operatività del terzo comma dell’ari:. 328, successivamente alla modifica dell’art. 327, comma 1, ad opera della L. n. 69 del 2009, che ha ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza il termine per proporre l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5.

I casi dal 2 al 4 sono quelli verificatisi durante la c.d. fase attiva del rapporto processuale. Il caso di cui al n. 5 riguarda anch’esso la fase attiva del rapporto, ma solo per l’ipotesi di riapertura dell’istruzione. Gli altri attengono alla fase di quiescenza del rapporto.

Riepilogando, gli eventi in questione hanno efficacia immediatamente interattiva del processo (ossia, al momento del loro stesso avverarsi) quando si verifichino prima della costituzione, oppure nei riguardi della parte costituitasi personalmente. Per il periodo successivo alla costituzione e sino a tutta l’udienza di precisazione delle conclusioni, nei casi di parte costituitasi a mezzo di procuratore, oppure di parte dichiarata contumace, il legislatore prevede l’effetto interruttivo in virtù di fattispecie complesse:

nella prima ipotesi, oltre all’evento è necessaria la relativa dichiarazione del procuratore in udienza o la notifica alle altre parti e l’interruzione si verifica nel momento stesso della dichiarazione o della notificazione; nella seconda ipotesi, oltre all’evento, è necessaria la documentazione a cura dell’altra parte o la notificazione o la certificazione dell’ufficiale giudiziario, e l’interruzione si verifica a partire da questi momenti.

Gli eventi dell’art. 299, che si verificano dopo l’udienza di discussione non determinano alcuna conseguenza, se non: l’effetto interruttivo del processo, quando sia riaperta l’istruzione;

l’effetto interruttivo del termine breve per impugnare, se l’evento sopravviene durante il suo decorso; l’effetto di prorogare il termine lungo per impugnare, se l’evento s’avvera dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza; la facoltà di notificare la sentenza agli eredi anche collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto.

Con riferimento al giudizio di primo grado, va precisato come, a seguito della novella di riforma del codice di rito del 1990, essendo l’udienza di discussione dinanzi al collegio divenuta vicenda processuale residuale: a) se l’istanza di discussione orale non è stata presentata, il termine di cui all’art. 300 c.p.c., comma 5, coincide con la scadenza del termine di cui agli artt. 190 e 281 quinquies c.p.c., per il deposito delle memorie di replica; b) se la richiesta di discussione è stata avanzata, l’inciso “davanti al collegio” deve ritenersi tacitamente abrogato, atteso che il regime temporale deve essere lo stesso sia che la causa debba essere decisa dal giudice unico, che dal collegio.

Quanto, poi, al verificarsi dell’evento dopo la proposizione dell’appello, si applica la medesima disciplina del primo grado di giudizio.

Occorre subito porre in risalto che gli eventi dell’art. 299 c.p.c., hanno la comune caratteristica di menomare la possibilità della parte di difendersi adeguatamente in giudizio. Il verificarsi di questi fatti produce uno stato di quiescenza, caratterizzato dall’impossibilità di compiere ulteriori atti del processo e dall’interruzione dei termini in corso (artt. 298 e 304 c.p.c.).

La dottrina ha da tempo individuato il fondamento dell’istituto dell’interruzione del processo nella necessità di assicurare l’effettività del contraddittorio tra le parti, ove i suddetti eventi colpiscano, nel corso dello stesso, alcuna di esse (i soggetti, cioè, investiti della potestà di compiere atti processuali), menomando in qualche misura la loro partecipazione in difesa delle proprie ragioni.

Al pari della speculare fattispecie della rimessione in termini, l’interruzione si caratterizza, pertanto, nel suo aspetto genetico, come istituto volto alla tutela della effettività del contraddittorio tra le parti (principio, questo, implicitamente garantito dallo stesso art. 24 della Costituzione ed operante per tutta la fase di merito del processo, ma non anche, secondo l’unanime giurisprudenza e la prevalente dottrina, in seno al giudizio di cassazione); sul piano funzionale, a guisa di evento determinativo di uno iato procedimentale circoscritto nel tempo, che non incide sul permanere della litispendenza, realizzando, per converso, uno stato di mera quiescenza del processo.

L’interruzione è, dunque, nel suo aspetto morfologico, vicenda processuale di tutela predisposta in favore della parte colpita dall’evento che la genera, e solo tale parte sarà legittimata ad eccepire il mancato rispetto delle norme che la prevedono.

Essa viene meno (e il procedimento riprenderà il proprio corso) quando sia stata compiuta quell’attività che la legge ritiene necessaria per ristabilire la piena effettività del contraddittorio, ma i suoi effetti, secondo la più attenta dottrina, si realizzerebbero indipendentemente dall’accertamento se il fatto interattivo si sia tradotto in concreto in un impedimento inevitabile con l’impiego del necessario grado di diligenza.

In conclusione, il legislatore non ha previsto una specifica disciplina per le ipotesi che sono oggetto di questa indagine, ossia non dice: se alla parte deceduta possa essere validamente notificata la sentenza presso il suo difensore, al fine di far decorre il termine breve per impugnare; se l’impugnazione possa essere notificata alla parte deceduta presso il suo procuratore nel precedente grado di giudizio (il caso che specificamente interessa la causa in trattazione); se il procuratore della parte deceduta o divenuta incapace sia legittimato a proporre l’impugnazione per la parte stessa.

Tutto ciò premesso, si può ora passare ad esaminare come le regole sopra scrutinate siano state finora applicate dalla giurisprudenza per risolvere i quesiti sopra posti.

4. – Gli effetti del verificarsi degli eventi dell’art. 299 c.p.c., nella giurisprudenza di legittimità.

S’è già detto in precedenza della storica ed esasperata instabilità giurisprudenziale nella materia in trattazione.

In grandi linee, per l’ipotesi in cui si sia verificato l’evento interruttivo e questo non sia stato dichiarato, è possibile individuare due indirizzi: uno, che, curandosi sia dell’interesse degli eredi (che non sono di facile ed immediata individuabilità da parte del difensore del defunto) alla prosecuzione del giudizio nei termini e nei modi stabiliti, sia della posizione della controparte non formalmente edotta dell’evento o che, comunque, incolpevolmente non l’abbia conosciuto (e si trovi, dunque, in uno stato di assoluta incertezza rispetto all’identità del suo contraddittore), tende a salvare (vedremo poi come) gli atti posti in essere dal procuratore del defunto e, nel contempo, gli atti indirizzati dalla controparte al procuratore della stessa parte deceduta; un altro, che tende a privilegiare gli interessi degli eredi, li considera ormai giusta parte e ritiene valido solo l’atto processuale che sia a loro diretto o sia da loro stessi voluto ed indirizzato alla controparte.

Ecco, dunque, che con sentenza del 18 maggio 1963, n. 1294, le Sezioni Unite, in ipotesi di morte della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta in corso di causa, statuirono che, non dichiarato in udienza l’evento alle altre parti dal procuratore di quella deceduta, è ammissibile l’impugnazione proposta nei confronti di quest’ultima e notificata presso il procuratore. Principio di diritto, questo, ribadito, in via generale, in ipotesi di morte della parte avvenuta sia prima che dopo la chiusura della discussione e la pubblicazione della sentenza, nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici (Cfr. Cass. 18 novembre 1964, n. 2753; 24 ottobre 1968, n. 3482; 14 luglio 1971, n. 2293; 22 gennaio 1974, n. 174; 4 luglio 1974, n. 1934; 29 ottobre 1974, n. 3281; 14 febbraio 1975, n. 579; 13 marzo 1975, n. 951; 26 gennaio 1976, n. 2403; 26 giugno 1976, n. 2420).

Ma la sentenza 29 novembre 1971, n. 3474, in una fattispecie in cui era stato dichiarato il fallimento di una parte, restrinse l’applicazione della disciplina di cui all’art. 300 c.p.c., al grado di giudizio in cui si verifica l’evento, nel periodo tra la citazione e la discussione, rilevando che, nella diversa ipotesi del verificarsi dell’evento dopo la chiusura della discussione o dopo la pubblicazione o la notificazione della sentenza, l’art. 328 c.p.c., si limita a disporre l’interruzione o la proroga dei termini per la impugnazione. Il che fu ribadito dalla sentenza 7 gennaio 1974, n. 30, relativamente all’ipotesi di morte della parte vittoriosa avvenuta dopo l’udienza di discussione e prima della pubblicazione della sentenza.

Per l’ipotesi di morte della parte, fu ripreso e ribadito il principio di diritto secondo cui la validità della notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito, è subordinata alla condizione che la parte soccombente che propone l’impugnazione non abbia comunque avuto, senza sua colpa, conoscenza del decesso della controparte (Cfr. Cass. 7 ottobre 1974, n. 2639).

Anche relativamente all’ipotesi in cui la parte incapace perchè minore, rappresentata dall’esercente la potestà genitoria costituito a mezzo di procuratore, avesse raggiunto la maggiore età in corso di causa, senza che l’evento fosse stato dichiarato in udienza o notificato all’altra parte dal procuratore, fu affermata la validità dell’impugnazione notificata al legale rappresentante presso il procuratore (Cass. 9 ottobre 1969, n. 3240; Cass. 6 luglio 1971, n. 2116; Cass. 28 luglio 1975, n. 2905; Cass. 10 giugno 1974, n. 2639), benchè alcune pronunce avessero subordinato la validità dell’impugnazione, in quel modo notificata, all’assenza di colpa nella parte impugnante quanto all’ignoranza di detto vento, ponendone l’onere della prova talvolta a carico di quest’ultima (Cass. 10 febbraio 1968, n. 452; Cass. 16 ottobre 1969, n. 3352; Cass. 9 aprile 1974, n. 989), talaltra della parte chiamata nel giudizio di impugnazione (Cass. 23 maggio 1972, n. 1605; Cass. 21 aprile 1975, n. 1531; Cass. 5 aprile 1976, n. 1176).

Le Sezioni Unite si pronunciarono nuovamente con la sentenza 21 luglio 1978, n. 3630, esaminando l’ipotesi di morte o perdita della capacità processuale della parte costituita a mezzo di procuratore avvenuta tra una fase processuale e l’altra, e, in tale occasione, statuirono che il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione della fase processuale di gravame va risolto non già alla luce dei principi dell’ultrattività del mandato al procuratore costituito o della non automaticità della interruzione ex art. 300 c.p.c., bensì alla stregua delle disposizioni normative contenute nell’art. 328 c.p.c., secondo cui l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo, ma sul termine per la proposizione della impugnazione, con effetti diversi a seconda che si tratti di termine breve (art. 325 c.p.c.) o di termine lungo (art. 327 c.p.c.) di decadenza; e che, conseguentemente, mai può prescindersi dalla nuova situazione soggettiva verificatasi riguardo ad una delle parti, salvo che la controparte abbia, senza sua colpa, ignorato l’evento, nel qual caso opera la disciplina di cui all’art. 291 c.p.c..

Nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici fu riaffermata l’ammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti della parte deceduta o divenuta incapace presso il procuratore se questi non avesse dichiarato in udienza o notificato alle altre parti l’evento (Cass. 15 febbraio 1979, n. 996; 22 febbraio 1979, n. 1139; 10 gennaio 1981, n. 217), e fu ribadito che l’atto di impugnazione notificato alla parte deceduta o divenuta incapace o al legale rappresentante della parte divenuta maggiorenne è valido se la parte notificante ha ignorato senza colpa l’evento (Cass. 12 gennaio 1979, n. 225; 25 gennaio 1979, n. 587; 9 maggio 1979, n. 2641; 11 febbraio 1980, n. 2452; 22 aprile 1981, n. 2349). Il che si trova sancito anche nella sentenza delle Sezioni Unite 2 aprile 1981, n. 1865, alla quale hanno fatto seguito altre sentenze delle sezioni semplici (Cass. 4 agosto 1982, n. 4387, non massimata; 25 novembre 1982, n. 6400).

Ma gli interventi salienti ai quali occorre far ora riferimento sono quelli costituiti dalle sentenze delle Sezioni Unite del 1984 (Cass. SU nn. 1228, 1229 e 1230 del 21 febbraio 1984) e del 1996 (Cass. SU 19 dicembre 1996, n. 11394).

Le prime, trovandosi ad esaminare un caso in cui la morte della parte era avvenuta prima della discussione della causa (ed, ovviamente, non era stata dichiarata, nè comunicata) affermarono il principio che può dirsi (sicuramente in maniera approssimativa e riduttiva) di ultrattività del mandato, in forza del quale: è valida la notificazione della sentenza fatta al procuratore della parte deceduta a norma dell’art. 285 c.p.c.; il procuratore stesso (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte “che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, ancora in vita o capace”; è ammissibile l’atto di impugnazione notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1 presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto aliunde conoscenza dell’evento.

Il nucleo del discorso svolto dalle sentenze del 1984 è fondato sulla considerazione che, omessa dal procuratore (unico legittimato) la dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti (fino alla chiusura della discussione) dell’avvenuta morte o della perdita di capacità della parte da lui rappresentata, la posizione giuridica di questa resta stabilizzata, rispetto alle altri parti ed al giudice, quale persona ancora esistente ed ancora capace, nella fase attiva in corso del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione della sentenza, e di riattivazione, a seguito e per effetto della proposizione dell’impugnazione.

Situazione che è suscettibile d’essere modificata solo se, nel successivo processo d’impugnazione, si costituiscono gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura ad litem valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà alle altre parti l’evento verificatosi, oppure se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario secondo la norma di cui all’art. 300 c.p.c., comma 4.

Le tre sentenze delle quali s’è finora detto hanno deciso, dunque, in un’ipotesi in cui l’evento dell’art. 299 c.p.c., s’era verificato prima della discussione, cioè nel corso di quella che è detta la fase attiva del processo, ed il procuratore della parte non ne aveva fatto oggetto di formale dichiarazione in udienza o di notifica alle altre parti.

Cass. SU 19 dicembre 1996, n. 11394, torna sull’argomento per aggiungere un altro tassello a quello che è stato definito il puzzle processuale, ossia specificamente tratta dell’ipotesi in cui l’evento si verifichi dopo la pubblicazione della sentenza, per concludere che in questo caso: la notificazione della sentenza ad opera del procuratore della parte deceduta è viziata da nullità e non è, dunque, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, se egli non chiarisce che la notificazione è fatta a nome degli eredi e non fornisce indicazioni tali da consentire alla controparte la proposizione dell’impugnazione nei loro confronti; l’impugnazione fatta dal procuratore della parte deceduta è viziata da nullità;

nullità sanata dalla costituzione in appello degli eredi entro la scadenza del termine per impugnare.

E’ proprio questo il principio al quale fa riferimento l’ordinanza di rimessione allorchè rileva: che nella fattispecie oggi in trattazione si discute di un ricorso per cassazione mal diretto, al quale ha contribuito anche la mancata dichiarazione dell’evento interruttivo nel giudizio a quo; che al ricorso ha fatto seguito l’instaurazione del contraddittorio con gli eredi della parte defunta a seguito della costituzione dei medesimi; costituzione in considerazione della quale l’impugnante, pur essendo nei termini per rinnovare utilmente il gravame, non vi ha provveduto, confidando nella giurisprudenza di legittimità, all’epoca di gran lunga prevalente, che ravvisava l’intervenuta sanatoria attraverso la menzionata costituzione.

La premessa richiamata dalle Sezioni Unite del 1996 è che, in questa ipotesi, il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione di una valida fase processuale di impugnazione deve essere risolto non già alla luce dei criteri dell’ultrattività del mandato al procuratore costituito e della non automaticità dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., che operano solo se uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., si verifica nell’intervallo temporale tra la costituzione della parte e la chiusura dell’udienza di discussione (secondo i principi, appunto, sanciti dalle Sezioni Unite con le summenzionate sentenze del 1984), bensì alla stregua dell’art. 328 c.p.c., secondo il quale l’evento interruttivo, avvenuto nel caso di specie dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, incide non più sul processo, ma essenzialmente sul termine per la proposizione dell’impugnazione, con la conseguenza che non si può, in alcun caso, prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente alla sentenza ed al processo.

In altri termini, l’arresto del quale si discute accoglie il principio (che definisce “chiovendiano”) in ragione del quale le parti, quand’è definito un grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui con il quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio, questo, derogato – secondo la sentenza – allorchè l’evento si sia verificato nella fase attiva del processo ed il procuratore non l’abbia dichiarato, ma che riacquista pieno vigore allorchè l’evento si verifica tra un grado e l’altro, perchè in tal caso il processo d’impugnazione va proposto dai soggetti reali contro i soggetti reali ed a questo fine l’art. 328 detta alcune regole per rendere possibile (“a costi accettabili”) tali risultati. Regole in base alle quali, se l’evento morte o incapacità della parte si verifica quando è stata notificata la sentenza ed è in corso il termine per impugnare, tale termine rimane automaticamente interrotto ed un nuovo termine prende a decorrere solo ed in quanto la notificazione della sentenza sia rinnovata alla parte reale e, quindi, nel caso di morte, agli eredi (sia pure entro l’anno, collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto, a norma dell’art. 328 c.p.c., comma 2).

La tematica viene, dunque, ricondotta dall’arresto del 1996 nella categoria della nullità, siccome non si tratta di impugnazione rivolta contro soggetto tutt’affatto diverso da quello che è stato in giudizio nel precedente grado (nel qual caso l’impugnazione sarebbe come non proposta e rileverebbe solo sotto il profilo di inesistenza/inammissibilità), con la conseguenza che la situazione è ricostruibile non in termini di impugnazione non esercitata, bensì di impugnazione invalidamente esercitata, in quanto tra il soggetto deceduto ed i suoi eredi non v’è totale alterità processuale. Vizio desumibile dal combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione.

La sentenza ne fa derivare l’effetto che, stando alla disciplina anteriore alla novella n. 353 del 1990, non sarebbe possibile la rinnovazione dell’atto e la costituzione del convenuto farebbe salvi i diritti anteriormente quesiti, lasciando ferma la decadenza dall’impugnazione ove frattanto maturata. Diversa è, invece, la disciplina dettata dalla novella, prevedendosi, con riferimento alle nullità di cui all’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2, la possibilità di rinnovazione (art. 164 novellato) e, tanto a questa, quanto alla costituzione del convenuto, attribuendosi effetto ex tunc. Nel 2005 le Sezioni Unite tornano sull’argomento con la sentenza n. 15783 del 28 luglio, la quale, benchè tratti dell’ipotesi di raggiungimento della maggiore età da parte di un minore costituitosi in giudizio a mezzo dei suoi legali rappresentanti, estende il discorso a tutti gli eventi dell’art. 299 c.p.c., stabilendo che, qualora uno di quegli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell’art. 190 c.p.c.), e tale evento non venga dichiarato nè notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati.

Anche in questo caso viene invocato il portato dell’art. 328 c.p.c., dal quale viene desunta la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato nè notificato (in senso conforme, si veda anche la più recente Cass. 4 aprile 2013, n. 8194).

La sentenza precisa pure che, limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995 (rispetto ai quali non opera la possibilità di sanatoria dell’eventuale errore incolpevole nell’individuazione del soggetto, nei cui confronti il potere di impugnazione deve essere esercitato, offerta dal nuovo testo dell’art. 164 c.p.c., come sostituito dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, nella parte in cui consente la rinnovazione, con efficacia ex tunc, della citazione e dell’impugnazione, in relazione alle nullità riferibili all’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2) il dovere di indirizzare l’impugnazione nei confronti del nuovo soggetto effettivamente legittimato resta subordinato alla conoscenza o alla conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che propone l’impugnazione, essendo tale interpretazione l’unica compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.).

In realtà, con quest’arresto le Sezioni Unite operano una drastica virata rispetto a tutti i precedenti.

Abbiamo visto che la sentenza del 1996 aveva lasciato formalmente salva la tesi dell’ultrattività del mandato predicata dalle sentenze del 1984, purchè l’evento si fosse verificato nella fase attiva del rapporto processuale ed (ovviamente) il procuratore non l’avesse nè dichiarato, nè comunicato alle altre parti; aveva, invece, preteso che il rapporto fosse instaurato nei confronti della giusta parte nel caso in cui l’evento si fosse verificato dopo l’udienza di discussione, ossia nella fase di quiescenza del rapporto stesso;

aveva, a tal riguardo, rinvenuto nel disposto dell’art. 328 c.p.c., la chiave di volta del sistema; aveva escluso l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c., (rinnovazione della notificazione); aveva ammessa l’ipotesi sanante della costituzione degli eredi.

Il precedente del 2005, invece, relega il principio d’irrilevanza dell’evento non dichiarato nè comunicato alla mera fase in cui esso si verifica e nega del tutto il correlato principio d’ultrattività del mandato. Principio, questo, rinnegato in ragione della disciplina codicistica sostanziale (art. 1722 c.c., n. 4) che prevede la morte del mandante come causa d’estinzione del mandato. Sicchè – sostiene l’arresto – la disciplina dettata dall’art. 300, commi 1 e 2, (che attribuisce al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato, anche se sia nel frattempo deceduta o divenuta incapace), in quanto derogatoria al principio dell’art. 1722 c.c., n. 4, va contenuto entro il rigoroso ambito ivi previsto, ossia nei limiti di quella fase del processo in cui s’è verificato l’evento non dichiarato nè notificato concernente il mandante, e non può espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale. In altri termini, il principio generale secondo il quale la legittimazione a compiere e ricevere atti del giudizio d’impugnazione resta influenzata dalla nuova situazione soggettiva di una delle parti, vale non solo nel caso di evento verificatosi dopo la discussione (come aveva ritenuto la sentenza del 1996), “ma anche nell’ipotesi di evento accaduto nella fase attiva del processo e non dichiarato, nè notificato; ponendosi in quest’ipotesi il silenzio del procuratore quale fatto idoneo a spostare nel tempo la rilevanza di quell’evento che, rimasto nascosto per tutto il corso del giudizio di primo grado dalla mancata dichiarazione o notificazione, riacquista alle soglie dell’appello la rilevanza propria della morte o di altro evento prima della costituzione del giudizio”.

Successivamente a questa sentenza, resta da segnalare Cass. Sezioni Unite 16 dicembre 2009, n. 26279, la quale ribadisce che l’atto d’impugnazione, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente (senza possibilità d’applicazione del disposto dell’art. 291 c.p.c., ove l’impugnazione sia invece proposta nei confronti del defunto).

A questo punto, siamo giunti a Cass. Sezioni Unite 13 marzo 2013, n. 6070, la quale, per certo un verso, rappresenta l’origine di tutto questo discorso, posto che (come s’è visto) l’ordinanza della seconda sezione civile (che ha rimesso la questione al nuovo vaglio delle Sezioni Unite) nasce proprio dalla perplessità che essa abbia rimesso in crisi l’orientamento che s’era da più di un decennio affermato, secondo cui l’impugnazione diretta al procuratore della parte ormai defunta è affetta da una nullità sanabile mediante costituzione degli eredi (come di fatto è avvenuto nel processo di cui oggi si discute).

La sentenza tratta di alcune questioni attinenti agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, dopo la riforma del diritto societario attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003.

Muovendo dalla premessa che, dall’entrata in vigore della novella, la cancellazione determina l’estinzione della società di capitali e la presunzione d’estinzione della società di persone, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad esse facenti capo (avendo la riforma adottato, per una ratio di certezza giuridica, il sistema della liquidazione formale), le Sezioni Unite ricostruiscono le conseguenze dell’estinzione in termini – lato sensu – successori: a) quanto agli effetti sostanziali passivi (trasferimento del debito sociale ai soci, con responsabilità limitata o illimitata, a seconda del tipo di responsabilità durante societate); b) quanto agli effetti sostanziali attivi (acquisto in comunione tra i soci dei diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione, escluse le mere pretese e le ragioni creditorie incerte, la cui mancata liquidazione manifesta rinuncia); c) quanto agli effetti processuali (incapacità della società di stare in giudizio, interruzione del giudizio pendente, prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società o contro di essa, anzichè dai soci o contro di essi).

In particolare, con specifico riferimento a quest’ultimo punto, resta confermato il principio che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla L. Fall., art. 10); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso.

Per quanto qui interessa, la Corte (sancita l’applicabilità, all’ipotesi di cancellazione della società dal registro delle imprese, con conseguente sua estinzione, dell’art. 299 c.p.c.), nel l’affronta re gli interrogativi che sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi con la sopravvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese si ponga nel passaggio al grado successivo (il che può accadere o perchè in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg., oppure perchè quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perchè l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione), ha ritenuto, pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte (se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge), debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa – secondo la sentenza in rassegna – il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero della giusta parte (sul punto sono citate Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; 8 febbraio 2012, n. 1760; 13 maggio 2011, n. 10649; 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783).

La sentenza ritiene non essere un onere troppo gravoso (nè tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria) quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte, che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. Nè la sentenza si sofferma a discutere del se ed in quale eventuale misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, nè quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente l’atto d’impugnazione. L’evento estintivo in discussione, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), la sentenza non ritiene ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacchè la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio).

La sentenza del 2013 perviene, dunque, a sanzionare d’inammissibilità l’impugnazione che non sia diretta o non provenga dalla giusta parte, rifiutando la tesi che ritiene nullo, per errore sull’identità del soggetto (anzichè inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anzichè ai successori si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo (analoga statuizione di inammissibilità è contenuta in Cass. 9 aprile 2013, n. 8596, mentre i principi sanciti dalle Sezioni Unite con la pronuncia in rassegna hanno trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di fattispecie esaminata, anche in Cass. 4 luglio 2013, n. 16751).

Quanto alla sentenza del 2013, occorre, dunque, osservare (per soddisfare il dubbio insito nell’ordinanza di rimessione) che essa, se per un verso è vero che tratta la problematica in termini generali e tiene conto di tutti i precedenti che hanno anch’essi affrontato la materia in termini generali, per altro verso è pur vero che è fortemente influenzata dalla circostanza dell’essere la parte estinta, nella fattispecie, una società cancellata dal registro; tant’è che, come s’è visto, neppure si cura di affrontare dettagliatamente il tema di eventuali ipotesi sananti la sostenuta inammissibilità dell’atto d’impugnazione, fermandosi a fronte del regime pubblicitario vigente per lo specifico soggetto processuale societario.

Volendo incrociare e raffrontare tra loro i dati giurisprudenziali finora illustrati, si può osservare che lo stesso s’è verificato rispetto alla sentenza a Sezioni Unite del 2005, la quale, pur trattando della specifica fattispecie della cessazione della rappresentanza genitoriale per sopravvenuta maggiore età del soggetto rappresentato, ha voluto affrontare il tema in termini generali, per poi concludere che, quanto al raggiungimento della maggiore età, il problema della consapevolezza o meno del verificarsi dell’evento (e, quindi, di tutela della parte incolpevole) non si pone neppure, posto che la maggiore età è un accadimento inevitabile nell’an ed agevolmente riscontrabile nel quando.

5. – La soluzione della questione.

Volendo tentare un’estrema sintesi del così variegato e contraddittorio quadro giurisprudenziale finora delineato, può dirsi che i precedenti fin qui esaminati spaziano tra due estremi: dalla risalente (ma tuttora ricorrente) affermazione dell’ultrattività del mandato, alla recentissima, drastica sanzione d’inammissibilità dell’impugnazione proposta da o contro un soggetto estinto.

Nel mezzo v’è lo sforzo di mediare tra la tutela, per un verso, della giusta parte (che, dopo l’evento, è considerato un soggetto ormai nuovo e diverso da quello che era stato fino ad allora nel processo) ed il problema della conoscibilità dell’evento stesso, con tutto quanto consegue circa la tutela, per altro verso, della buona fede della controparte, che incolpevolmente l’abbia ignorato. Di qui, la configurazione in termini di nullità dell’atto diretto alla parte che non esiste più o non è più capace o dell’atto da quella proveniente, con la correlata esigenza di individuare meccanismi recuperatori (rispetto alle maturate decadenze), quali la rimessione in termini o la costituzione (entro certi termini) degli eredi della parte deceduta.

Un più attento raffronto tra i principi di volta in volta affermati e le vicende trattate, consente poi di verificare che la soluzione giurisprudenziale è stata la maggior parte delle volte raggiunta attraverso il metodo induttivo, più che deduttivo. Nel senso che, dati alcuni principi base, la peculiarità del caso specificamente trattato ha influenzato la decisione ed il suo portato nomofilattico, mentre più raramente dal principio generale si è pervenuti a disciplinare la vicenda concreta. Ed è per questo che le regole di massima hanno viaggiato diacronicamente attraverso quello che viene definito il diritto vivente, potendosi riscontrare in recenti pronunzie echi emersi alcuni decenni addietro, benchè essi dovessero o potessero ritenersi superati dagli arresti di volta in volta resi dalle Sezioni Unite. E’ per questo che, ancora una volta, il collegio di una sezione semplice si rivolge alle Sezioni Unite per sapere quale, delle tante soluzioni finora escogitate, sia da applicare ad un processo che, soprattutto per la sua esasperante ed insostenibile durata, vede innumerevoli volte verificarsi la successione di parte a parte.

La tesi della nullità, introdotta dalla sentenza del 1996 e seguita, poi, nella conclusione estrema apportata dalla sentenza del 2005, non ha soddisfatto la successiva giurisprudenza ed ha destato aspre critiche in dottrina.

La stessa sentenza del 1996 individua il vizio dell’ipotesi esaminata (notificazione dell’impugnazione alla parte deceduta, presso il procuratore costituito nel precedente grado) con una sorta di approssimazione (w/n via di principio non appare scorretta la riconduzione della tematica in esame alla categoria della nullità…”) ed in via d’esclusione, tenuto conto che non può trattarsi di “inesistenza/inammissibilità” perchè l’impugnazione non è rivolta contro un soggetto tutt’affatto diverso da quello che è stato nel precedente grado e che tra il soggetto deceduto ed i suoi eredi non v’è totale alterità dal punto di vista del processo.

Vizio che “potrebbe”, dunque ricondursi al combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., n. 2, e art. 164 c.p.c., in quanto attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione.

Ma la sentenza del 2013 non si mostra convinta da questa soluzione, riflettendo sul fatto che nella situazione della quale si discute non v’è incertezza sull’identità della parte (che, invece, è ben chiara), ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte diversa da quella che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati.

Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.

Analoghe critiche sono state mosse, dalla dottrina, alla tesi della nullità: sia perchè l’art. 164 c.p.c., riguarda il caso dell’omissione o dell’assoluta incertezza dell’identità della parte evocata in giudizio, evidentemente ben diverso da quello della precisa direzione della vocatio in ius verso un soggetto compiutamente identificato ma estinto (tant’è che non è poi mancata qualche pronunzia della stessa Suprema Corte che ha ritenuto attinente addirittura alla editio actionis il vizio derivante dalla citazione in giudizio di una persona fisica deceduta, anzichè dei suoi eredi); sia perchè la stessa giurisprudenza di legittimità, anche se probabilmente per l’insussistenza in tal caso dell’esigenza di tutelare la parte ignara dell’avvenuto decesso della controparte, sembra non fare un simmetrico discorso in relazione al caso dell’impugnazione proposta da (anzichè contro) un soggetto ormai estinto, che infatti non sembrava esitare nell’affermare inammissibile e non già affetta da una nullità sanabile ex tunc ai sensi e nei modi di cui all’art. 164 c.p.c., commi 1 e 2; sia, ancora, perchè l’idea che l’impugnazione proposta da o contro una parte deceduta sia nulla ma sanabile ex tunc è asimmetrica pure rispetto alla pacifica affermazione che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado rivolto o notificato ad un soggetto inesistente è assolutamente inidoneo ad instaurare il contraddittorio processuale e dunque è esso stesso giuridicamente inesistente (in questo senso: Cass. 3 agosto 1984, n. 4616), ovvero affetto da una nullità assoluta ed insanabile rilevabile in ogni stato e grado del processo (in quest’altro senso: Cass. 14 agosto 1999, n. 8670; 5 dicembre 1994, n. 10437; 14 aprile 1988, n. 2951; 1 ottobre 1985, n. 4758; 23 maggio 1985, n. 3108; 6 aprile 1983, n. 2400; 12 gennaio 1979, n. 244).

Il quadro interpretativo, così come emerso e sviluppato, manifesta, dunque, un profondo stato di insoddisfazione ed inquietudine, un’instabilità insopportabile e sconcertante non solo per la dottrina e per il foro ma, evidentemente, per gli stessi giudici (di merito e di legittimità).

Allora, le Sezioni Unite sono caricate dallo sforzo (e dall’auspicio) di offrire alla materia una soluzione che abbia un effetto stabilizzante per il processo ed eviti equivoci, arditi distinguo, ricerca di rimedi di salvaguardia e sanatoria, accertamenti incidentali relativi a condotte e stati psicologici.

E, per stabilizzare il processo, occorre stabilizzare la parte stessa, ritornando alla teoria dell’ultrattivita del mandato, nel senso e nei limiti di cui si dirà in seguito, seguendo il consiglio che ormai da molta parte della dottrina proviene.

6. – L’ultrattività del mandato.

Come s’è visto in precedenza, la tesi dell’ultrattività del mandato costituisce uno dei primi approdi giurisprudenziali. Gli arresti degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso non dubitavano che il principio per cui il mandato alla lite sopravvive alla morte del mandante si spiega, sul piano razionale e funzionale, con la considerazione che, salvo che la legge disponga altrimenti, le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente (art. 82 c.p.c.) ed a tale presenza la legge fa ricorso ai fini di regolare gli effetti della morte o della perdita della capacità della parte costituita o contumace, in modo che tali eventi non operino automaticamente sul corso della vicenda processuale turbandone l’ordinato svolgimento, col rischio di provocare ingiustificate ripercussioni sostanziali sul diritto dedotto.

Dal canto suo, l’art. 85 c.p.c., stabilisce che la procura può essere sempre revocata ed il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finchè non sia avvenuta la sostituzione del difensore.

Concordando con la maggiore elaborazione giurisprudenziale della tesi in argomento, sviluppata dalle già citate tre sentenze rese dalle Sezioni Unite del 1984, occorre riflettere sulla circostanza che, a norma dell’art. 300 c.p.c., essendo indispensabile ed insostituibile la comunicazione formale dell’evento da effettuarsi dal procuratore della parte deceduta o che ha perduto la capacità di stare in giudizio, e non avendo perciò rilevanza la conoscenza che dell’evento le altre parti abbiano aliunde, l’effetto interruttivo del processo è prodotto da una fattispecie complessa costituita dal verificarsi dell’evento e dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione fattane dal procuratore alle altre parti. Dichiarazione o notificazione che il procuratore della parte defunta o non più capace, ed egli soltanto (con esclusione, perciò degli eredi o del rappresentante legale della parte), può, discrezionalmente, fare o non fare, e fare nel momento che ritiene più opportuno, al fine di provocare, sul presupposto dell’effettivo verificarsi dell’evento, l’effetto giuridico dell’interruzione del processo; dichiarazione o notificazione del procuratore che, consistendo nell’esteriorizzazione di una determinazione volitiva, al fine di produrre l’effetto interruttivo del processo, si configura come negozio processuale del procuratore legittimato dal potere rappresentativo conferito con la procura ad litem.

In altri termini, l’interruzione del processo non si produce automaticamente, quale effetto ricollegato direttamente ed esclusivamente alla morte o alla perdita della capacità della parte:

finchè non vi sia la comunicazione formale del procuratore della parte defunta o divenuta incapace, proseguendo l’iter processuale nello stato anteriore, come se la parte fosse ancora in vita o continuasse ad essere capace, si verifica, appunto, il fenomeno dell’ultrattività della procura ad litem, nonostante il verificarsi dell’evento che, per la norma dell’art. 1722, n. 4, avrebbe dovuto procurarne l’estinzione (vedremo, in seguito, che la regola dell’ultrattivita del mandato alla lite è compatibile con il diritto sostanziale).

La tassatività delle forme di manifestazione dell’evento previste dall’art. 300 c.p.c., comma 1, è, dunque, confortata dalla natura negoziale della dichiarazione esplicitata in udienza o notificata, la quale è a sua volta argomentata, in primo luogo, per essere nella potestà del difensore il diritto-potere di provocare o meno l’interruzione del processo ed, in secondo luogo, in quanto, allorchè il procuratore, valutata la situazione processuale e sostanziale facente capo alla parte colpita dall’evento, entri nella determinazione di denunciare l’evento, la sua è una manifestazione di volontà preordinata a conseguire il fine (e l’effetto) della tutela dell’interruzione.

Va, dunque, escluso che la dichiarazione in questione sia di pura scienza. Se lo fosse (ossia, avesse la semplice funzione di mettere al corrente la controparte del fatto menomativo sopravvenuto), la dichiarazione diventerebbe un atto doveroso e dovuto, in quanto il difensore, una volta a conoscenza dell’accadimento, sarebbe tenuto a darne notizia; inoltre, e per conseguenza, verrebbe sottratto al procuratore della parte il potere di valutare la situazione processuale in corso e di manifestare l’evento con la precisa e predeterminata volontà di perseguire per il proprio cliente la tutela della interruzione.

Ma ciò contrasta proprio con le ragioni che hanno spinto il legislatore a diversificare la disciplina del perfezionamento della fattispecie interruttiva nell’ipotesi in cui la parte sia costituita in giudizio a mezzo di procuratore ad litem. Infatti, ove questi ritenga che nessun pregiudizio possa derivare alla parte sostanziale dalla prosecuzione del processo (eventualmente concordata con chi è legittimato a costituirsi in giudizio in vece del soggetto colpito dall’evento), proprio in virtù del potere discrezionale di cui legittimamente si avvale, può anche sottacere l’evento, astenendosi dal provocare l’interruzione del processo. Restando, tuttavia, esposto ad una personale responsabilità nei confronti della parte sostanziale, qualora dalla omessa dichiarazione della morte o del fatto esclusivo della capacità di stare in giudizio sia derivato a questa un pregiudizio, tenuto conto che la sentenza deliberata al termine di un processo, che avrebbe potuto essere interrotto, è comunque destinata a produrre i suoi effetti.

E’ per questo che dottrina e giurisprudenza hanno attribuito al difensore la figura di dominus litis, discutendo di sopravvivenza della rappresentanza giudiziale alla morte del mandante ed ipotizzando talvolta una presunzione di conferma tacita del mandato da parte del successore della parte deceduta o di colui che assume la rappresentanza legale della parte divenuta incapace, destinata a venir meno soltanto con la comunicazione dell’intervenuto evento.

Come rappresentante tecnico, il difensore, con la costituzione in giudizio, realizza anche e soprattutto la presenza legale della parte nel processo, il quale rimane completamente impermeabile rispetto agli eventi menomativi che colpiscono la parte stessa o il suo rappresentante legale.

In altre parole ed in linea di principio, il decesso della parte non pregiudica alcun diritto dei suoi successori, in quanto la presenza in giudizio del procuratore ad litem garantisce ed assicura il rispetto del contraddittorio.

Di qui il potere del difensore di proseguire il processo nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, insuscettibile di ledere il contraddittorio e di pregiudicare o menomare in qualche modo l’esercizio dell’attività tecnica difensiva, che è di esclusiva competenza del procuratore, sul quale graverà, se mai, l’onere (tenuto conto della personale responsabilità di cui si faceva cenno) di dare notizia dell’esistenza e pendenza del processo ai legittimati alla prosecuzione del giudizio per concordare con questi la determinazione di interrompere o meno il processo.

L’unico, vero limite, invece, che il procuratore della parte può incontrare nell’esercizio del potere discrezionale di proseguire il processo successivamente all’evento interruttivo è quello del grado di giudizio, in pendenza del quale si è verificato l’accadimento. In altre parole, allorchè, la parte abbia conferito procura ad litem per il solo giudizio di primo grado, il difensore, che non avesse dichiarato o notificato l’evento, potrebbe solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione, ma non potrebbe mai nè notificare validamente la sentenza nè, tantomeno, interporre o costituirsi nel giudizio di gravame. Diversamente, potrebbe attendere e svolgere legittimamente le attività in oggetto e quelle procuratorie in generale, qualora sia munito di procura anche per gli altri gradi di giudizio.

Così pure, un ulteriore limite è costituito dalla procura speciale ad impugnare per cassazione, nel senso che il procuratore costituito per i giudizi di merito potrebbe solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione per cassazione, ma non potrebbe nè validamente notificare la sentenza, nè resistere con controricorso, nè, tanto meno proporre ricorso in via principale o incidentale.

Passando ora alla seconda fase processuale, che va dalla chiusura della discussione alla pubblicazione della sentenza, il verificarsi dell’evento, pur se notificato dal procuratore, non produce alcun effetto interruttivo, perchè la situazione delle parti è cristallizzata al momento iniziale di tale fase e ad essa si riferisce la sentenza.

Tuttavia, la notificazione che il procuratore della parte defunta abbia fatto in epoca successiva alla chiusura della discussione, come quella che faccia una volta pubblicata la sentenza e prima che questa sia notificata richiede che ci si interroghi sulla direzione che tale notificazione debba prendere per poter produrre l’effetto suo proprio di determinare la decorrenza del termine breve per l’impugnazione.

Ora, l’art. 285 c.p.c., dispone, in via generale, che la notificazione della sentenza, al fine della decorrenza dei termini per l’impugnazione, si fa, su istanza di parte, a norma dell’art. 170 (l’originario testo dell’art. 285 stabiliva che “la notificazione della sentenza… si fa, su istanza di parte, a norma dell’art. 170, commi 1 e 3”; la L. n. 69 del 2009, ha soppresso l’inciso “commi 1 e 3 “), ossia al procuratore costituito per la parte nel grado di giudizio concluso con la pubblicazione della sentenza.

Il primo comma del successivo art. 286, per l’ipotesi che dopo la chiusura della discussione si sia verificata la morte o la perdita della capacità della parte alla quale deve essere notificata la sentenza, dispone che tale notificazione nsi può fare, anche a norma dell’art. 303, comma 2, a coloro ai quali spetta stare in giudizio”, ossia agli eredi della parte defunta, individualmente a ciascuno di loro oppure collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto, o al rappresentante legale della parte divenuta incapace.

Le sentenze del 1984 hanno affermato che la forma verbale usata nell’art. 286, comma 1, (“si può fare”) offre alla parte totalmente o parzialmente vittoriosa due alternative per la notificazione della sentenza al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione: o dirigerla alla parte defunta o divenuta incapace, come se fosse ancora in vita o capace, rappresentata dal suo procuratore nel precedente grado del processo, oppure dirigerla agli eredi della controparte defunta o al rappresentate legale della controparte divenuta incapace.

E’ necessario, però, precisare che questa possibilità di scelta sussiste per la parte che si accinge alla notificazione della sentenza solo se non le sia stata intanto notificato dal procuratore dell’altra l’evento che è sopravvenuto a menomarne la capacità di difesa.

Di tal che, la notificazione della sentenza non potrebbe sortire l’effetto di far iniziare il decorso del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c, quando sia fatta al procuratore dell’altra, una volta che il suo procuratore ne abbia notificato il sopravvenuto effetto menomante.

E’, dunque, affidata alla scelta della parte vittoriosa l’incidenza o meno della morte o della perdita della capacità della controparte, verificatasi dopo la chiusura della discussione, nel rapporto processuale entrato nello stato di quiescenza dopo la pubblicazione della sentenza, per la notificazione di questa al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione. Se la scelta è fatta in senso positivo, l’incidenza dell’evento nel rapporto processuale si verifica per volontà di quella parte. Se, invece, la scelta è fatta in senso negativo, il rapporto processuale, nel suo riferimento soggettivo resta immutato, quale era al momento della chiusura della discussione: continua ad essere parte, rappresentata dal suo procuratore, il soggetto defunto o divenuto incapace, come se fosse ancora in vita o capace, essendo la sua estinzione o la modifica del suo stato irrilevante nei confronti dell’altra parte.

La prospettiva da cui si pone l’art. 328 c.p.c., comma 1, è infine quella del fatto menomante che colpisce la parte mentre è in corso il termine breve per l’impugnazione, perciò dopo che si sia avuta la notificazione della sentenza.

Verificatosi l’evento durante la decorrenza del termine breve, questo è interrotto ed il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata, la quale rinnovazione può essere fatta agli eredi collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto.

L’art. 328, comma 1, non diversifica la disciplina per l’una e l’altra parte, disponendo genericamente che “il termine è interrotto e il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata”, mentre il terzo comma (sulla cui attuale operatività, a seguito della modifica dell’art. 327 c.p.c., comma 1, ci si è già interrogati in precedenza) statuisce (o statuiva) espressamente che il termine di un anno “è prorogato per tutte le parti”: la stessa portata deve avere la norma di cui al comma 1.

In questo periodo di quiescenza, dunque, l’evento costituisce (diversamente da quanto, come abbiamo visto, avviene nella fase attiva) un elemento genetico strutturalmente completo, che produce effetti d’interruzione o di proroga del termine d’impugnazione in maniera diretta ed esclusiva.

Ed in questo senso, è, dunque, corretto affermare che il legislatore ha previsto una differente disciplina per ciascuno dei momenti in cui l’evento si verifichi; discipline che non si sovrappongono e non interferiscono tra loro, sicchè, verificatosi l’evento in un dato momento del rapporto processuale e prodottosi l’effetto ricollegato all’evento dalla corrispondente normativa, l’effetto così prodotto permane in tutto il successivo svolgersi del rapporto, senza che su di esso possano influire le altre diverse normative che regolano gli effetti dell’evento verificatosi negli ulteriori momenti del rapporto.

Perciò, tornando all’ipotesi in cui l’evento si verifichi durante la fase attiva del processo, l’unica disciplina applicabile è quella dell’art. 300, con la conseguenza che la scelta (esteriorizzazione o meno dell’evento) è nelle mani del procuratore della parte colpita dall’evento e l’effetto che deriverà da questa scelta permarrà per tutto l’ulteriore svolgimento del rapporto processuale. Se egli (unico legittimato) omette la dichiarazione dell’evento in udienza o la notificazione alle altre parti (fino all’udienza di discussione), la posizione giuridica della parte da lui rappresentata resta stabilizzata, rispetto alle altri parti ed al giudice, come se fosse ancora viva o capace, sia nella fase attiva in corso del rapporto, sia nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione della sentenza, sia di riattivazione del rapporto processuale stesso a seguito e per effetto della proposizione dell’impugnazione.

Questa posizione giuridica stabilizzata si modificherà solo se, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiranno gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure, ancora, se il procuratore di tale parte, originariamente munito di valida procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarerà in udienza o notificherà alle altre parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sarà notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4.

Ed è proprio la stabilizzazione della parte, pur se defunta o divenuta incapace, a comportare nell’ambito del rapporto processuale, verso l’esterno, nei confronti delle altri parti e del giudice, l’ultrattività della procura alla lite. Nel senso che verso l’esterno il procuratore costituito continua a rappresentare la parte, considerata esistente e capace.

Tutto ciò si riflette nel rapporto interno tra cliente e procuratore. Alla base di questo v’è, dunque, l’incarico di una prestazione d’opera professionale di carattere pubblicistico, con conferimento del potere di rappresentanza processuale, esteriorizzato nei confronti dei terzi dalla procura alla lite (o alle liti), che permane, nonostante la morte o la perdita di capacità della parte, nella cui posizione subentrano gli eredi o il rappresentante legale.

7. – Critiche alla teoria dell’ultrattività del mandato.

Confutazione.

Giunti a questo punto, occorre affrontare (e confutare) le critiche rivolte alla tesi dell’ultrattività del mandato ed alle conseguenze che essa comporta; critiche che si sostanziano, soprattutto: nella valorizzazione della giusta parte, che a seguito del verificarsi dell’evento menomativo, non sarebbe più quella originaria e che andrebbe tutelata nella sua diversa identità; nell’inestensibilità della disciplina dell’art. 300 c.p.c., alle fasi processuali per le quali non è esplicitamente prevista, dovendosi considerare questa disposizione eccezionale e derogatoria alla già menzionata disposizione civilistica dettata in tema di mandato.

Quanto al primo rilievo, s’è già dato conto del versante giurisprudenziale che, nel considerare le ipotesi di evento verificatosi tra un grado e l’altro del processo, afferma l’imprescindibilità della nuova realtà soggettiva venutasi a determinare, con la conseguenza che il nuovo grado di giudizio andrebbe instaurato da e contro i soggetti reali. E’ questo orientamento che, nel porre al centro della questione la regola dell’art. 328 c.p.c., (secondo la quale – lo si ripete – l’evento interruttivo verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza conclusiva di una fase di merito incide non più sul processo, bensì sul termine per la proposizione dell’impugnazione) deduce che, in nessun caso, si può prescindere dalla nuova, reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente dalla controversia ed al processo.

Orientamento che, come s’è visto, è richiamato dal precedente delle Sezioni Unite del 1996, il quale accoglie questa impostazione giurisprudenziale alla luce del principio “chiovendiano” secondo cui le parti, quand’è definito un grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, ossia prima di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale. Principio che sarebbe derogato solo nel caso in cui l’evento si sia verificato nella fase attiva del rapporto ed il procuratore non l’abbia dichiarato e che riacquisterebbe, invece, pieno vigore allorchè l’evento si verifichi tra un grado e l’altro, con la necessità che il processo di impugnazione vada proposto contro i soggetti “reali”.

Il riferimento (seppur sotto forma d’aggettivazione, in ragione del divieto di citare in sentenza il nome di autori) all’illustre processual civilista è ribadito dalla sentenza a Sezioni Unite del 2005 per giungere – come s’è visto – a conclusioni di carattere generale (non limitate, dunque, all’ipotesi in trattazione del minorenne divenuto maggiorenne nel corso del processo) ancor più estreme rispetto alla sentenza del 1996.

Tuttavia, oggi le Sezioni Unite nutrono un forte ripensamento circa il fatto che quell’idea dottrinaria del processo possa essere trasferita nella materia in questione per trame la conseguenza che la parte, ogni volta che si apra una nuova fase processuale (sia essa attiva o di quiescenza), debba ripetere tutti gli stessi accertamenti svolti all’origine dell’instaurazione della causa, per avere la certezza (pur sempre relativa) di avere come proprio interlocutore la parte “reale” del processo.

E’ pur vero che il precetto costituzionale dell’art. 111 (peraltro, invocato da ciascuna delle contrapposte tesi) implica e contiene nel principio del contraddittorio anche quello di giusta parte. Tuttavia, occorre mettersi d’accordo su quale sia effettivamente questa parte.

I precedenti che hanno ritenuto nulla o inammissibile l’impugnazione rivolta contro il defunto e notificata presso il suo procuratore comunemente sostengono che giusta non può considerarsi la parte non più in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori, deducendone che l’impugnazione va instaurata e deve svolgersi da e contro i soggetti che siano parti attualmente interessate alla controversia ed al processo.

Bisogna, invece, dire, sulla base di quanto finora espresso, che cosa è la parte in senso processuale e cosa è la parte in senso sostanziale, che la giusta parte è quella che ha instaurato e quella contro cui è stato instaurato il giudizio, ossia quelle che lo hanno fondato e costruito, conferendo il loro mandato al difensore per la globale cura della controversia. Parti che, seppur menomate nella loro capacità o nella loro stessa esistenza in vita, continuano a veder tutelate le proprie ragioni, in favore di coloro che saranno i successori, ad opera del loro rappresentate eletto, al quale soltanto è conferito il potere di disvelare al giudice ed alla controparte l’avvenuta verificazione di quella menomazione.

Allora, proprio nella logica costituzionale delle “pari condizioni processuali”, appare quanto meno paradossale che colui che è detentore della conoscenza di quell’evento (il difensore) e decida di non svelarlo al giudice ed alla controparte, possa successivamente giovarsi di quella scelta (che potrebbe essere addirittura concordata con i chiamati all’eredità), ottenendo che tutti gli atti rivolti al defunto e presso di lui notificati siano, in buona sostanza ed a prescindere dalle categorie giuridiche, ridotti nel nulla. Il legislatore, probabilmente, non ha più dettagliatamente disciplinato la materia nella prospettiva che la via della dichiarazione o della notificazione dell’evento, ai fini dell’interruzione del processo, dovesse essere quella più comunemente sperimentata. Invece, l’interpretazione del complesso normativo nel senso opposto a quello che si va ora affermando condurrebbe non solo a legittimare il summenzionato paradosso ma, addirittura, ad incentivare il difensore in una scelta difensiva che porti quanto più possibile non solo a tacere ma addirittura a celare l’evento, così da avvantaggiarsene in seguito.

A tutto questo occorre aggiungere che non è infondata la protesta di molta parte della dottrina che ha temuto (soprattutto criticando l’arresto delle Sezioni Unite del 2005) la trasformazione degli avvocati da tutori degli interessi sostanziali dei loro clienti ad “attenti e scrupolosi investigatori della capacità processuale della controparte”.

Passando, ora, al secondo rilievo (eccezionalità e, dunque, inestensibilità alle fasi processuali per le quali non è prevista della disciplina dell’art. 300), pur senza assumere alcuna posizione in ordine a quella dottrina che predica l’autonomia del diritto processuale da quello sostanziale, occorre notare, nell’affrontare il parallelismo tra diritto sostanziale e diritto processuale, che il principio di ultrattività del mandato ad litem non costituisce affatto un’eccezione rispetto alle regole civilistiche concernenti il mandato, bensì segue una logica insita nel sistema sostanziale.

A tal riguardo va invocato l’art. 1728 c.c., comma 1, (a mente del quale, quando il mandato s’estingue per morte o incapacità sopravvenuta del mandante, il mandatario che ha iniziato l’esecuzione deve continuarla, se vi è pericolo nel ritardo), che è interpretato nel senso che il mandatario deve continuare l’esecuzione del mandato estinto, agendo quale gestore di negozi, non già soltanto quando vi è un pericolo, ma sempre che a suo criterio, corrispondente a quello del buon padre di famiglia, vi sia l’eventualità di un pregiudizio per l’affare o per la buona riuscita dello stesso; così come, in sostanza, il difensore continua a gestire la lite per la parte defunta o divenuta incapace secondo la sua discrezionale scelta difensiva mirante al buon esito della controversia.

Altrettanto, allo stesso fine, deve essere invocata la seconda parte dell’art. 1722, n. 4, la quale stabilisce che il mandato avente per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa non s’estingue per morte, interdizione o inabilitazione del mandante, se l’esercizio dell’impresa è continuato (salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi). Qui valgono i medesimi criteri che mantengono ferma la proposta di contratto fatta dall’imprenditore nonostante la sua morte, interdizione o inabilitazione; ossia, l’impresa obiettivizza gli interessi che si concentrano in essa e li rende (quasi) indipendenti dalle vicende che colpiscono la persona dell’imprenditore. E non è peregrina, al riguardo, la proposta di un autore favorevole alla teoria dell’ultrattività del mandato alla lite, che suggerisce di sostituire alle parole “atti relativi all’esercizio di un’impresa” le parole “atti relativi allo svolgimento del processo”, per verificare la perfetta corrispondenza della menzionata teoria anche alle regole civilistiche.

Nella stessa linea si pone anche l’art. 1723 c.c., comma 2, laddove è sancito che il mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi non s’estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante.

Ai fini che ci interessano è pure utile menzionare l’art. 2013 c.c., comma 3, il quale stabilisce che l’efficacia della girata per procura del titolo di credito non cessa per la morte o la sopravvenuta incapacità del girante.

Ma la norma fondamentale alla quale fare riferimento è quella contenuta nell’art. 1396 c.c., comma 2, secondo cui le cause di estinzione, diverse dalla revoca della procura, del potere di rappresentanza conferito dall’interessato non sono opponibili ai terzi che le hanno senza colpa ignorate. E, tra le cause di estinzione del potere rappresentativo diverse dalla revoca, vi sono, appunto, la morte o la sopravvenuta incapacità del rappresentato.

In conclusione, sembra inutile discutere della limitata efficacia della disposizione dell’art. 300 c.p.c., come conseguenza della sua eccezionalità rispetto al sistema sostanziale: sia perchè essa ha una sua specifica ratio e funzione nel corretto e coerente svolgimento del processo, e ciò basta perchè tutto il processo possa riceverne beneficio; sia perchè essa è perfettamente in linea con il sistema sostanziale che, in particolari ipotesi e per determinati fini, prevede, come s’è visto, dei meccanismi assolutamente analoghi.

Altri argomenti militano, poi, a favore della tesi qui affermata.

Tenuto conto degli interessi in gioco (quello della parte che non ha subito l’evento, alla prosecuzione del processo ed all’ammissibilità dell’impugnazione; quello della parte colpita dall’evento, alla garanzia del diritto di difesa) il neointrodotto art. 816 sexies c.p.c., (dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 22) stabilisce che, se la parte viene meno per morte o altra causa, ovvero perde la capacità legale, gli arbitri assumono le misure idonee a garantire l’applicazione del contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio. Essi possono sospendere il procedimento e se nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono rinunciare all’incarico.

Disposizione, questa, che pone la prosecuzione del giudizio al centro dell’interesse comune delle parti, pur nella salvaguardia del contraddittorio da assicurare con qualsiasi misura dettata dall’arbitro.

L’art. 182 c.p.c., nel comma 2, sostituito dalla L. n. 69 del 1969, art. 46, stabilisce che il giudice, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. Come suggerisce un’attenta dottrina, distinguendo “rilascio” da “rinnovazione” della procura alle liti, la norma sembra considerare due fenomeni distinti: il primo, caratterizzato dalla alterità soggettiva dell’autore della (nuova) procura rispetto a colui che l’aveva (necessariamente ex art. 125 c.p.c., comma 2) rilasciata in origine, così rimediando al successivo venir meno del potere; il secondo, caratterizzato invece dalla permanenza del potere in capo al medesimo soggetto, cui compete il nuovo esercizio soltanto per emendare i vizi dell’atto formato in origine.

Pertanto, la tesi dell’ultrattività del mandato trova un’implicita convalida là dove la legge ammette la negotiorum gestio dell’avvocato, tanto da consentire ai nuovi titolari del potere di rilasciare una procura con efficacia anche retroattiva e godere del ponte tra i diversi gradi che l’esercizio difensivo dell’avvocato (intanto fattosi sprovvisto del potere autenticamente rappresentativo per il venir meno della parte originaria) ha già precariamente assicurato. Recuperando ex tunc, in questo modo, e stabilizzando la continuità del potere di rappresentanza in giudizio.

A conclusione di questo discorso occorre apporre un’avvertenza. Tutto quanto finora detto e la soluzione adottata non significa certamente che la causa “della parte” si possa trasformare in causa “dell’avvocato”. Al contrario, la soluzione qui accolta carica di maggiore responsabilità il difensore, poichè è vero che la scelta di esteriorizzare o meno l’evento è solo sua e fa capo alla propria, discrezionale scelta professionale (sia essa concordata o non con i successori della parte scomparsa), ma è maggiormente vero che siffatto complesso di legittimazioni e poteri lo pone in una situazione professionalmente e deontologicamente delicatissima nei confronti dei successori stessi.

Occorre, infatti, ricordare che uno dei principali obblighi scaturenti dal contratto d’opera professionale è quello d’informazione, il che significa che è implicito al sistema che il procuratore alla lite, verificatosi uno degli eventi dei quali s’è finora discorso, è legittimato a ricevere gli atti dei quali s’è detto ed tenuto a compiere di sua iniziativa solo gli atti urgentissimi che siano indispensabili ad evitare decadenze; per il resto, egli ha il preciso obbligo professionale di individuare immediatamente i successori o il rappresentante del suo cliente per informarli dello stato della causa, illustrare la strategia difensiva e ricevere disposizioni in merito. Diversamente, egli è responsabile in via disciplinare ed in via civile per qualsiasi pregiudizio derivante al cliente dalla sua colpevole condotta.

In conclusione, va affermato il principio secondo cui:

L’incidenza sul processo degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c., (morte o perdita di capacità della parte) è disciplinata, in ipotesi di costituzione in giudizio a mezzo di difensore, dalla regola dell’ultrattività del mandato alla lite, in ragione della quale, nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell’impugnazione. Tale posizione giuridica è suscettibile di modificazione nell’ipotesi in cui, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza o notifichi alle altri parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sia documentato dall’altra parte (come previsto dalla novella di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 46), o notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4. Ne deriva che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, a norma dell’art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace; b) detto procuratore, qualora gli sia originariamente conferita procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l’atto di impugnazione notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza dell’evento.

8. – La soluzione del caso in esame.

Venendo ora allo ius litigatoris e riassumendo i dati della fattispecie in trattazione, si rileva che: a) la causa sottoposta al giudizio della seconda sezione è iniziata con citazione notificata il 2 marzo 1990, dunque prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla L. n. 353 del 1990, e successive integrazioni; b) una delle parti è deceduta prima della pubblicazione della sentenza di secondo grado; c) il ricorso per cassazione è stato notificato alla parte deceduta, presso il suo procuratore nel precedente grado; d) il controricorso dei soggetti dichiaratisi eredi del de cujus è stato notificato prima del decorso del termine c.d. lungo per l’impugnazione di legittimità, non risultando notificata la sentenza di appello.

Ciò posto, la vicenda avrebbe assunto diversi esiti a seconda che si fosse applicata la regola della sentenza del 1996 o quella della sentenza del 2013. La prima avrebbe attribuito efficacia sanante del ricorso (considerato nullo) al controricorso degli eredi, con efficacia ex nunc (trattandosi, come s’è detto, di processo introdotto prima delle modifiche apportate all’art. 164 c.p.c., dalla L. n. 353 del 1990); la seconda avrebbe sanzionato d’inammissibilità il ricorso.

La tesi oggi accolta risolve in radice ogni problema, posto che il ricorso per cassazione risulta essere stato notificato alla parte deceduta presso il procuratore nominato per il precedente grado di giudizio. Il ricorso stesso è, dunque, ammissibile.

Gli atti vanno rimessi alla seconda sezione civile per la decisione in ordine al merito del ricorso.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla seconda sezione civile per la decisione in ordine al merito del ricorso stesso.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2014

Add Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *