Nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, se il giustificato motivo oggettivo si sostanzia nella generica esigenza di ridurre il personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve scegliere il soggetto (o i soggetti) da licenziare sempre nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. In tal senso, infatti, si rileva come a tali principi deve uniformarsi, in ossequio all’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti di un rapporto obbligatorio e, dunque, anche il recesso di una di esse. (Nel caso di specie, si è ritenuta illegittima la sentenza gravata nella parte in cui il Giudice aveva apoditticamente affermato che il datore di lavoro non era tenuto ad adottare criteri di scelta per l’individuazione dell’unico soggetto da licenziare, senza aver verificato se la scelta fosse stata effettuata nel rispetto dei canoni di correttezza e buona fede).
Il lavoratore che impugni il licenziamento intimatogli perché discriminatorio è tenuto a dimostrare che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto un’efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche in relazione ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.
Spetta al Giudice verificare l’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un proprio dipendente. Il datore di lavoro, dunque, deve in tal senso fornirne la prova, come pure deve dimostrare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, fermo restando l’onere gravante sul lavoratore di deduzione ed allegazione di tale possibilità di reimpiego.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28/03/2011, n. 7046
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