In materia di espropriazione forzata, l’art. 565 c.p.c., nel testo vigente prima della modifica operata con la legge 263 del 2005, nell’indicare gli effetti dell’intervento tardivo dei creditori chirografari, ovvero dell’intervento avvenuto oltre l’udienza fissata per la vendita e prima di quella prevista prima della formazione del progetto di riparto, ex art. 596 c.p.c, individuava questo momento come il termine perentorio per l’ammissibilità di tale intervento. Costituisce principio consolidato, sotteso alla ratio di cui all’art. 565 c.p.c. quello secondo cui nel processo esecutivo è precluso l’intervento ai creditori, seppure privilegiati, durante e dopo la celebrazione dell’udienza di discussione del progetto di distribuzione del ricavato della vendita, di cui all’art. 596 c.p.c. Trattasi di una regola non derogabile neppure nel caso in cui, dopo l’approvazione del progetto di distribuzione, siano acquisite alla procedura nuove somme di denaro ed il giudice fissi una nuova udienza per le modifiche al progetto di distribuzione, essendo detta udienza necessaria ed avendo anche finalità meramente esecutive del progetto di distribuzione, che non può più essere ridiscusso.
Cass. civ. Sez. III, 31/03/2015, n. 6432
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –
Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 28556/2011 proposto da:
C.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO, rappresentato e difeso dall’avvocato STIVANELLO GUSSONI FRANCO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.S., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso il suo studio, rappresentato e difeso da se medesimo;
EQUITALIA NORD SPA (OMISSIS), in persona del procuratore speciale avv. B.M., elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO IVANCICH giusta procura a margine del controricorso;
ITALFONDIARIO SPA (OMISSIS), in persona del procuratore Dott. CA.SA., in qualità di mandataria di CASTELLO FINANCE SRL (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA GRAZIOLI 15, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO GARGANI, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
e contro
V.L., P.M., PI.MA., BANCO POPOLARE VERONA NOVARA SOC COOP A RL, P.G.C., p.a.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 710/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 29/03/2011 R.G.N. 2794/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/2014 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato NICOLA DE PIERRO per delega non scritta;
udito l’Avvocato GAETANO GIANI per delega non scritta;
udito l’Avvocato ROBERTO CATALANO per delega;
udito l’Avvocato F.S.;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso e condanna aggravata alle spese di parte soccombente.
Svolgimento del processo
p.1. C.M. ha proposto ricorso per cassazione contro la s.r.l. Castello Finance (già Intesa Gestione Crediti s.p.a. e già Banco Ambrosiano Veneto s.p.a.), la s.p.a. Equitalia Nord (già Equitalia Polis s.p.a., già Gest Line s.p.a., già Gerico s.p.a.), F.S., V.L., P.M., “nonchè, per quanto di ragione”, contro Pi.Ma., il Banco Popolare di Verona e Novara Soc. Coop a r l., P.G.C. e p.a., avverso la sentenza del 27 settembre 2011, con cui è stato rigettato il suo appello contro la sentenza del Tribunale di Venezia del giugno del 2007, la quale – provvedendo su un giudizio ai sensi dell’art. 512 c.p.c., introdotto da esso ricorrente a seguito della contestazione dell’intervento da lui spiegato il 13 novembre 2003 nelle procedure esecutive nn. 213 del 1998 e 301 del 1999, introdotte rispettivamente dal Banco Ambrosiano Veneto e dalla Cassa di Risparmio di Venezia e poi riunite – aveva dichiarato la tardività di detto intervento.
p.2. Al ricorso hanno resistito con separati controricorsi il F., la s.p.a. Italfondiario “nella qualità di mandataria della s.r.l. Castello Finance s.p.a., e la Equitalia Nord, mentre non hanno svolto attività difensiva gli altri intimati.
p.3. In vista dell’odierna udienza hanno depositato memoria il ricorrente ed il F..
Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia: “violazione e falsa applicazione dell’art. 152 c.p.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 3);
violazione e falsa applicazione, in ogni caso, dell’art. 565, in relazione all’art. 596 c.p.c.”.
Vi si censura la motivazione con cui la Corte lagunare ha rigettato il primo motivo di appello, con cui il ricorrente aveva criticato la sentenza del Tribunale, là dove aveva considerato tardivo il suo intervento in quanto avvenuto oltre la celebrazione dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c..
La critica si era sostanziata nella prospettazione, sulla base dell’invocazione del precedente di questa Corte di cui a Cass. n. 90 del 1965, che l’udienza di comparizione di cui all’art. 596 c.p.c., fissata dal giudice dell’esecuzione per il 17 ottobre 2003, era risultata un’udienza di mero rinvio al 14 novembre 2003 senza un’effettiva trattazione, onde il successivo intervento di esso ricorrente il 13 novembre si sarebbe dovuto considerare tempestivo.
p.1.1. La motivazione della sentenza impugnata, che è stata censurata con il motivo, si è così espressa: “la censura è infondata e va respinta. L’intervento del C. è stato operato infatti oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 565 c.p.c., per la concorrenza dei creditori chirografari nella distribuzione del ricavato nell’udienza ex art. 596 c.p.c., fissata appunto per il 17/10/03. Del tutto irrilevante, attesa la perentorietà del termine, è la circostanza che l’udienza poi sia stata differita per la discussione ad altra data, dato che il termine per rendere proficuo l’intervento era già spirato nel momento di celebrazione dell’udienza ex art. 596 c.p.c., a prescindere dalle vicende successive”.
p.1.2. I testi normativi che vengono in rilievo ratione temporis ai fini dello scrutinio del motivo con riferimento all’attività esecutiva oggetto di giudizio sono quelli anteriori alla riforme di cui al D.L. n. 35 del 2005, conv. dalla L. n. 80 del 2005.
In particolare, viene in rilievo l’art. 565 c.p.c., nel testo che, sotto la rubrica “Intervento tardivo”, disponeva in tal senso: “I creditori chirografari che intervengono oltre l’udienza indicata nell’art. 563, comma 2, ma prima di quella prevista nell’art. 596, concorrono alla distribuzione di quella parte della somma ricavata che sopravanza dopo soddisfatti i diritti del creditore pignorante e di quelli intervenuti in precedenza e a norma dell’articolo seguente”.
Vengono in rilievo, poi:
a) l’art. 596 c.p.c., il quale disponeva che: “1. Se non si può provvedere a norma dell’art. 510, comma 1, il giudice dell’esecuzione, non più tardi di trenta giorni dal versamento del prezzo, provvede a formare un progetto di distribuzione contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano, e lo deposita in cancelleria affinchè possa essere consultato dai creditori e dal debitore, fissando l’udienza per la loro audizione. II. Tra la comunicazione dell’invito e l’udienza debbono intercorrere almeno dieci giorni”;
b) l’art. 598 c.p.c., secondo cui: “Se il progetto è approvato o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, se ne da atto nel processo verbale e il giudice dell’esecuzione ordina il pagamento delle singole quote, altrimenti si applica la disposizione dell’art. 512”.
p.1.3. Il motivo in esame si articola in due distinte censure.
p.1.3.1. Con la prima censura ci si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto perentorio il termine fissato dall’art. 565, ancorchè esso sia fissato dalla legge tale senza che essa lo qualifichi tale “espressamente”, siccome impone l’art. 152 c.p.c., comma 2.
p.1.3.2. La censura è priva di fondamento, dato che la giurisprudenza della Corte, con approvazione da parte della dottrina, intende la prescrizione della previsione espressa di cui a detta norma non già nel senso che essa imponga di intendere perentorio solo quel termine, previsto per una determinata attività processuale, che una data norma dica tale con una proclamazione formale della perentorietà, bensì nel senso che la norma di previsione del termine possa rivelarlo tale anche per il tramite della sola considerazione del profilo della sua funzione. Sicchè ad integrare una norma di previsione di un termine perentorio si ritiene sufficiente anche soltanto l’acquisizione, all’esito della ricognizione della norma che preveda, direttamente od indirettamente, un termine per una certa attività, della sua necessaria natura perentoria per il fatto stesso che, nella sequenza procedimentale in cui detta previsione si inserisce, soltanto l’attribuzione di quella natura consenta il funzionamento della norma, cioè l’assicurazione dell’esigenza di disciplina cui essa è deputata.
Si veda, nella logica ora indicata, Cass. n. 5074 del 1997, secondo cui “Sebbene l’art. 152 c.p.c., disponga che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che questa li dichiari espressamente perentori, non si può da tale norma dedurre che, ove manchi un’esplicita dichiarazione in tal senso, debba senz’altro escludersi la perentorietà del termine; nulla vieta infatti di indagare se, a prescindere dal dettato della norma, un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba esser rigorosamente osservato, e sia quindi perentorio, come deve ritenersi, pur non essendo dichiarato tale dalla legge, per il termine di cinque giorni prima dell’udienza entro il quale devono costituirsi (L. Fall., art. 98, comma 3) i creditori esclusi dallo stato passivo del fallimento che abbiano proposto l’opposizione di cui allo stesso art. 98, in considerazione delle esigenze di certezza e celerità del procedimento di verifica dello stato passivo fallimentare, con la conseguenza che dalla inosservanza di tale termine deriva la decadenza dell’opposizione, non sanabile da una riproposizione di essa, che in quanto tardiva, è da dichiarare inammissibile”; e si veda ancora il leading case di cui a Cass. n. 3216 del 1960 per l’affermazione che “sebbene l’art. 152 c.p.c., disponga che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che questa li dichiari espressamente perentori, non si può da tale norma dedurre che, ove manchi una esplicita dichiarazione in tal senso, debba senz’altro escludersi la perentorietà del termine;
nulla vieta infatti di indagare se, a prescindere dal dettato della norma un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba essere rigorosamente osservato”.
Sulla base dei ricordati principi circa l’individuazione di un termine come perentorio, ben si comprende come l’art. 565 c.p.c., nel testo applicabile alla controversia, quando ammetteva, qualificandolo come tardivo l’intervento avvenuto “oltre l’udienza indicata nell’art. 563, comma 2, ma prima di quella prevista dall’art. 596 c.p.c.”, certamente individuava – salvo lo stabilire in che cosa si dovesse identificare – il momento collocantesi prima dell’udienza prevista dall’art. 596 come un termine ultimo per potersi considerare possibile e, quindi, ammissibile quell’intervento: invero la previsione normativa, là dove stabiliva il momento prima del quale l’intervento tardivo poteva comunque avvenire, per il fatto stesso che vi ricollegava gli effetti del concorso residuale alla distribuzione, e dunque effetti incidenti sull’attività da compiersi in funzione di essa nell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., cioè l’approvazione del progetto di distribuzione oppure, in mancanza, l’insorgenza delle condizioni per il giudizio a sensi dell’art. 512 c.p.c., e dunque su una fase ulteriore dello svolgimento della procedura esecutiva, evidenziava, per la contradizion che nòl consente, la chiara intenzione del legislatore di ricollegare tali effetti soltanto all’intervento che comunque fosse avvenuto prima del momento fissato, cioè prima dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., restando esclusa invece ogni incidenza e rilievo dell’intervento avvenuto successivamente.
Un intervento avvenuto successivamente, del resto, se si fosse potuto considerare rilevante e non irrilevante, cioè inammissibile avrebbe determinato un’incidenza sulla stesa attività da svolgersi nell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., e, quindi, un’incidenza del tutto contraria al modus operandi voluto dal legislatore, che imponendo come momento finale quello collocantesi prima di quell’udienza aveva chiaramente espresso l’intenzione di consentire l’inserimento tardivo nella procedura esecutiva di altri creditori solo prima dell’inizio dell’attività da svolgersi nell’udienza stessa e di escluderlo invece dopo. E ciò, com’è intuitivo, proprio per consentire che quell’attività potesse svolgersi sulla base di una situazione orami definita in ordine alla platea dei creditori potenzialmente concorrenti alla distribuzione. Di fronte, pertanto, ad una previsione di un momento entro il quale l’attività di intervento tardivo poteva essere compiuta, la considerazione di tale momento come significativo di una previsione di un termine perentorio si presentava correlata allo stesso profilo funzionale della previsione di quel momento, cioè come indispensabile per assicurare lo scopo ricollegato a detta previsione.
Poichè considerare rilevante un intervento dopo quel momento avrebbe alterato lo scopo perseguito dal legislatore, quello di consentire che prima dell’udienza dell’art. 596 c.p.c., fosse delineata la platea dei possibili creditori concorrenti, ex necesse l’art. 565, conteneva un termine perentorio.
1.3.3. Va rilevato che le considerazioni espresse fin qui per giustificare l’esistenza nell’art. 565, nel testo applicabile al giudizio di un termine ultimo e, dunque, perentorio per l’intervento tardivo, si attagliano anche al testo dell’art. 565 c.p.c., introdotto dal D.L. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni dalla L. n. 263 del 2005, e che ha sostituito nella norma il riferimento al soppresso art. 363 c.p.c., comma 2, con il riferimento al nuovo art. 564 c.p.c., che prevede il termine per potersi considerare tempestivo un intervento negli stessi termini previsti da quel comma 2.
Il principio di diritto che giustifica il rigetto della prima censura del primo motivo è allora il seguente: “L’art. 565 c.p.c., tanto nel testo anteriore alla sostituzione operata dal D.L. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, nella L. n. 263 del 2005, quanto nel testo sostituito, nell’indicare gli effetti dell’intervento tardivo dei creditori chirografari identificandoli in quelli intervenuti oltre l’udienza fissata per la vendita (quella dell’art. 563, comma 2, nel testo vecchio e quella di cui all’art. 564 c.p.c., nel testo nuovo) e prima di quella prevista nell’art. 596 c.p.c., individuava questo momento come termine perentorio per l’ammissibilità di tale intervento”.
p.1.4. Con una seconda censura il motivo si muove, invece, nella logica della perentorietà del termine, negata dalla prima censura ed invoca a sostegno dell’assunto che nel caso di specie l’osservanza del termine si sarebbe dovuta correlare all’udienza del 14 novembre 2003, il precedente di cui a Cass. n. 90 del 1965 c.p.c., secondo cui: “L’intervento, predisposto per consentire ai creditori iscritti o privilegiati di partecipare alla distribuzione delle somme conseguite dalla vendita dei beni espropriati, è valido ed operante se spiegato prima dell’udienza prevista dall’art. 596 c.p.c., cioè dell’udienza che il giudice dell’esecuzione, nel depositare in cancelleria il progetto di distribuzione, fissa per l’audizione dei creditori e del debitore, il termine predetto ha natura perentoria ma, nonostante il suo carattere d’indilazionabilità, non può non ritenersi condizionato all’effettiva celebrazione di quell’udienza la quale,in tanto può funzionare da dies ad quem in quanto l’adempimento processuale della discussione del progetto abbia avuto effettivamente luogo. (Nella specie, l’udienza fissata per l’audizione delle parti, fu rinviata per l’irregolare notificazione dell’avviso al debitore esecutato)”. (Cass. n. 90 del 1965).
p.1.4.1. La censura è priva di fondamento, atteso che il precedente invocato è del tutto carente di pertinenza con il caso di specie.
Va premesso che il principio consolidato che governava l’esegesi dell’art. 565 c.p.c., nel testo applicabile in questo giudizio, ma che può e deve governare anche quella del testo vigente, era il seguente: “Nel processo esecutivo è precluso l’intervento ai creditori, ancorchè privilegiati, durante o dopo la celebrazione dell’udienza di discussione del progetto di distribuzione del ricavato della vendita, di cui all’art. 596 c.p.c.. A tale regola non si può derogare nemmeno nel caso in cui, dopo l’approvazione del progetto di distribuzione, vengano acquisite alla procedura nuove somme di denaro ed il giudice fissi una nuova udienza per le conseguenti modifiche del progetto di distribuzione, in quanto tale udienza non solo non è necessaria, ma ha finalità meramente esecutive del progetto di distribuzione, che non può essere ridiscusso”. (Cass. n. 9285 del 2912; (ord.) n. 23393 del 2012).
Da tali principi emerge che l’esegesi dell’art. 565 c.p.c., tanto nel testo vecchio che nel testo nuovo, è stata condotta sostanzialmente assumendosi che il termine per gli interventi tardivi e ciò tanto se si tratti di creditori chirografari, quanto se si tratti di creditori privilegiati (art. 566 c.p.c.), viene identificato in un momento che si collochi prima che abbia luogo l’inizio dello svolgimento dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., con riferimento alle attività che debbono compiersi in essa.
Il lontano precedente del 1965 si riferiva ad un caso nel quale, invece, all’udienza di cui al’art. 596 c.p.c., si era constatata la presenza di una nullità relativa all’avviso al debitore esecutato e, dunque, un impedimento allo svolgimento dell’attività che in essa si sarebbe dovuta compiere, che aveva imposto di rinviarla ad altra data per il rinnovo dell’avviso. Dunque si trattava di un caso in cui l’udienza di cui all’art. 596 quanto alle attività che in esse si debbono e si possono compiere non si era potuta tenere ed aveva avuto luogo soltanto un’attività (espressione della norma dell’art. 162 c.p.c.) diretta rimediare ad una nullità che impediva la trattazione per quanto relativo a quelle attività.
Poichè il differimento dell’udienza si era concretato nella conseguenza che l’attività di trattazione da compiersi ai sensi del’art. 596 c.p.c., e, dunque, la stessa udienza da esso prevista per detta attività, non era stata possibile si comprende come la fissazione di una nuova udienza potè consentire di ravvisare ammissibile l’intervento spiegato nelle more, perchè tale intervento bene si poteva e doveva apprezzare come intervento avvenuto prima dell’udienza ex art. 596 c.p.c., e ciò perchè l’udienza in cui ebbe luogo il rilievo della nullità, pur fissata nel relativo provvedimento come udienza ai sensi di quella norma, non ebbe tale natura, in quanto non vi si svolse l’attività di cui all’art. 596 c.p.c., sebbene programmata, bensì soltanto l’attività rimediale alla nullità.
Nel caso che si giudica, invece, l’udienza fissata ai sensi del’art. 596 c.p.c., ebbe luogo, come ha allegato lo stesso ricorrente e come si rileva dal verbale da lui prodotto, con un’attività di trattazione tipicamente propria di essa, perchè in essa si constatò che vi era stato l’intervento di un creditore no contemplato nel piano di riparto, cioè il F., e si rilevò, da parte del giudice dell’esecuzione, l’opportunità di un rinvio per un aggiornamento del riparto, fissando anzi un termine per il deposito al 4 novembre 2003.
Dunque, non solo non si fece luogo ad un rinvio per rimediare a pregresse nullità impedienti lo svolgimento dell’attività di trattazione propria dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., ma si fece invece luogo ad una attività riconducibile proprio al profilo funzionale di essa.
Il rinvio per l’aggiornamento del piano di riparto in ragione di un intervento tardivo avvenuto prima dell’udienza de qua ma dopo la sua predisposizione è, infatti, attività che certamente rappresenta attività da svolgersi in seno all’udienza di cui all’art. 596 c.p.c.: ciò, per il fatto stesso che, essendo gli interventi tardivi ammissibili prima della detta udienza e dunque anche in un momento in cui, sulla base della situazione degli interventi pregressi, il piano di riparto da discutere sia già stato depositato e comunicato con la fissazione dell’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore (come impongono i testi dell’art. 596 ante e dopo la riforma del 2006, le cui modifiche non rilevano in parte qua), è palese che la verificazioni di interventi dopo che sia intervenuto quel deposito e dopo la comunicazione e fissazione dell’udienza, impone proprio in essa nuove valutazioni relative al riparto in quanto possano e debbano avere rilevanza i detti interventi. Poichè tali valutazioni del giudice, degli altri creditori e del debitore e, dunque, la relativa attività, non possono che svolgersi, come si sono svolte nella specie, proprio nell’udienza ex art. 596 c.p.c., è palese che quanto avvenuto nell’udienza del 17 ottobre 2003 fu nella specie attività di espletamento dell’udienza di cui a detta norma ed il rinvio all’udienza del 14 novembre determinò soltanto la prosecuzione di tale udienza in altra data.
Ne segue che, essendo pacifico che l’intervento del ricorrente avvenne nelle more di tale rinvio (13 novembre 2003), esso si collocò come intervento oltre il termine perentorio fissato dall’art. 565 c.p.c., perchè non avvenuto prima dell’udienza ex art. 596 c.p.c., bensì quando essa era già iniziata ed era stata rinviata per la prosecuzione.
La previsione nell’art. 565 vecchio e nuovo teste del momento finale degli interventi chirografari tardivi in “prima” dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., implicava come implica a ben vedere che il termine ultimo e perentorio per tali interventi (e non diversamente è da dire per quelli dell’art. 566 c.p.c.) si identificasse e si identifichi in un momento anteriore alla data ed all’ora (dato che la norma, nell’uno come nell’altro testo, si riferisce genericamente all’udienza, che è fissata in una certa data e ad una certa ora) fissata per l’udienza dell’art. 596 c.p.c., in quanto tale udienza avesse avuto o abbia luogo con lo svolgimento della attività da compiersi in essa secondo il suo profilo funzionale e dunque con un’attività di trattazione anche non esaurita che ne fosse o ne sia espressione.
Ove, invece, come nel caso della remota decisione del 1965 tale attività di trattazione non avesse avuto o non abbia luogo all’udienza all’uopo fissata per una nullità impediente e da rimediarsi con la fissazione di altra udienza, l’intervento restava come resta possibile.
La ragione dell’esclusione della preclusione degli interventi tardivi per effetto della tenuta dell’udienza ai sensi dell’art. 596 c.p.c., soltanto con un simile contenuto si rinviene agevolmente tenendo conto che in questo caso l’udienza non ha luogo con lo svolgimento dell’attività che vi si dovrebbe svolgere secondo il suo profilo funzionale, bensì con un’attività che serve per disporre una nuova udienza in modo rituale: dunque non avrebbe senso escludere interventi prima di essa perchè l’esclusione si risolverebbe nel precludere quello che la norma dell’art. 565 ammette come possibile prima dell’udienza in cui abbia luogo l’attività di cui all’art. 596 c.p.c..
Si deve ancora osservare che al caso ora considerato va aggiunto quello in cui all’udienza fissata abbia luogo un mero rinvio senza alcuna attività di trattazione, come per ragioni di ufficio (ad esempio derivanti da impedimento del giudice e simili): anche in tal caso, infatti, non essendosi svolta alcuna attività di trattazione ai sensi dell’art. 596 c.p.c., il consentire interventi nelle more della nuova udienza di mero rinvio si risolveva e si risolve nell’ammettere tali interventi in non diversa guisa da come si dovevano e si debbono ammettere interventi dopo il deposito e la comunicazione del riparto e la fissazione dell’udienza, ma prima di essa.
E, dunque, non v’è ragione per non adottare la stessa soluzione adottata per il caso di nullità impediente lo svolgimento dell’udienza.
p.1.4.2. Va rilevato, in fine, che il consentire un intervento al di fuori dell’ipotesi di rinvio dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c. per una nullità o d’ufficio, ed in particolare quando il rinvio avviene dopo un’attività di trattazione – come nella specie – risulta lettura della norma preclusa dal tenore dell’art. 565 c.p.c., tanto nel vecchio che nel nuovo testo, là dove si rifletta sulla circostanza che la formulazione usata dal legislatore per sancire in modo perentorio, come s’è visto, il momento finale dell’intervento tardivo, è ben diversa da quella usata per il diverso termine per gli interventi tempestivi.
Nell’art. 565 si faceva come si fa riferimento al “prima dell’udienza prevista dall’art. 596 c.p.c.”, mentre ohm nell’art. 563, comma 2, ed ora nell’art. 564, si fa riferimento al “non oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione alla vendita”. Dire “prima dell’udienza” significa che l’attività da compiersi si deve collocare anteriormente all’udienza, per cui se questa si tiene con un’attività di trattazione e, quindi, prosegue in altra udienza, non era come no è possibile ritenere che interventi successivi fossero e siano possibili. Dire invece “non oltre la prima udienza”, implica che l’attività possa compiersi anche durante il suo svolgimento e costringe ad interrogarsi non tanto sul se, com’è scontato, l’intervento sia possibile in caso di mero rinvio di detta udienza, quanto sul se sia possibile anche in un’udienza in prosecuzione, dopo un’udienza di trattazione non conclusasi con l’emissione dell’ordinanza di vendita (cosa che ha fatto Cass. n. 689 del 2012 precisando che “In tema di espropriazione immobiliare, l’intervento dei creditori – sia ai sensi dell’art. 563 c.p.c., applicabile agli interventi avvenuti prima del 1 marzo 2006, ed abrogato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3, lett. e), n. 22, convertito nella L. 14 maggio 2005, n. 80, sia ai sensi dell’art. 564 c.p.c., come sostituito dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3, lett. e), n. 23, convertito nella L. n. 80 del 2005 – è tempestivo se avvenuto anche oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione della vendita, quando, per qualsiasi causa, questa sia stata differita, semprechè sia avvenuto prima dell’emissione dell’ordinanza di vendita”).
p.1.4.3. Giusta le svolte considerazioni la seconda censura si deve rigettare sula base del seguente principio di diritto: “Tanto nel regime dell’art. 565 anteriore alla sostituzione operata dal D.L. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 80 del 2005, quanto nel regime successivo a tale sostituzione, la previsione come momento ultimo della possibilità di un intervento tardivo del creditore chirografario prima dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c., andava e va intesa nel senso che tale intervento è ormai precluso dopo che tale udienza abbia avuto inizio (nella data e nell’ora fissate) ed abbia avuto luogo con un’attività di trattazione effettiva ai sensi di detta norma, ancorchè venga disposto dopo di essa rinvio in prosecuzione della trattazione, mentre esso resta ancora possibile: a) qualora detta udienza, venga tenuta non già con lo svolgimento di una simile attività di trattazione, bensì con il solo compimento di attività dirette a rimediare ad una nullità impediente il suo rituale svolgimento e dunque abbia luogo una trattazione solo a questo scopo ed in funzione dell’adozione del provvedimento per rimediare alla nullità, seguendone la fissazione di una nuova udienza per la trattazione ai sensi dell’art. 596; b) nel caso in cui l’udienza non abbia luogo per mero rinvio derivante da ragioni d’ufficio. In tali casi l’intervento è possibile ancora prima dell’udienza di rinvio”.
Per completezza si osserva che la stessa regolamentazione trova applicazione agli interventori privilegiati di cui all’art. 566 vecchio e nuovo testi c.p.c., data l’identità di formulazione del requisito temporale di ammissibilità del loro intervento tardivo.
p.2. Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., e segg. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Il motivo addebita inizialmente alla Corte lagunare di avere proceduto ad una liquidazione delle spese giudiziali identica per tutte le parti vittoriose, ma poi si limita ad evocare, riportandolo, un passo motivazionale di Cass. n. 21371 del 2009, che riguarda il dovere del giudice di indicare il sistema di liquidazione adottato, e, quindi, deduce che “la Corte veneta ha proceduto esattamente in senso contrario al dovuto, effettuando una liquidazione costituita da una globale liquidazione dei compensi senza motivazione alcuna, rendendo impossibile ogni controllo di conformità alla tariffa professionale, in violazione dell’art. 91 c.p.c.”.
p.2.1. Il motivo è inammissibile, attesa la sua assoluta genericità: si veda per l’inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione generico Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi.
Nella specie, infatti: a) non dice come e perchè la liquidazione in misura identica a favore di tutte le parti vittoriose non sarebbe stata giustificata; b) allude, prospettando, peraltro, una diversa questione, ad una liquidazione globale, ma la sentenza impugnata ha liquidato le spese distinguendo diritti ed onorari; c) evoca Cass. n. 21371 del 2009 pretendendo di valorizzare l’affermazione da essa fatta circa l’obbligo del giudice di indicare il sistema di liquidazione adottato anche in caso di omesso deposito di nota spese, ma trascura di considerare che detta decisione ha fatto questa affermazione essendo investa di un motivo di ricorso che prospettava quale avrebbe dovuto essere la liquidazione adeguata alla tariffa professionale secondo il tenore della controversia.
p.3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione ex art. 6, comma 1, e art. 14 della tariffa approvata con D.M. 8/4/2004 n. 127;
violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
p.3.1. Il motivo articola una serie di censure, la cui attività assertiva è di non facile percezione.
Con quella che parrebbe una prima censura si lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto corretta la liquidazione delle spese nella stessa misura a favore dei vincitori di primo grado e ciò ancorchè il solo F. avesse postulato l’infondatezza del motivo di appello sul punto, adducendo che correttamente il primo giudice ave applicato il criterio del valore desumibile alla stregua dell’art. 17 c.p.c., comma 2, mentre le altre parti si erano rimesse a giustizia, così riconoscendo fondata la doglianza.
La censura – in disparte l’infondatezza della astratta contestazione circa l’applicazione di quel criterio e della invocazione del criterio del D.M. n. 127 del 2004, art. 6, (giusta il principio secondo cui “Il giudizio di opposizione al progetto di distribuzione approvato dal giudice dell’esecuzione, ancorchè è qualificato dall’opponente azione revocatoria del piano di riparto, rientra tra i giudizi di opposizione agli atti esecutivi introdotti ai sensi degli artt. 512 e 617 c.p.c.. Ne consegue che, ai fini della liquidazione delle spese di lite, non trova applicazione il D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 6, comma 1”: così Cass. n. 4222 del 2014) – è inammissibile per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto, postulando in sostanza che la Corte territoriale avrebbe erroneamente deciso su un motivo di appello, quello relativo all’erroneità della liquidazione delle spese, avrebbe dovuto fornire l’indicazione specifica di tale motivo, mentre la sua illustrazione nessuna precisazione svolge al riguardo, astenendosi sia dal riprodurre direttamente il motivo di appello, sia dal riprodurlo indirettamente, indicando la parte in cui nell’atto di appello troverebbe corrispondenza.
p.3.2. Con una seconda censura, svolta nelle pagine 25-26, ci si duole che la Corte territoriale abbia disatteso altri profili dell’appello riguardo alla liquidazione delle spese da parte del primo giudice, ma anche in tale caso si omette l’indicazione specifica del’atto di appello con cui quei profili erano stati dedotti, onde anche tale cesura impinge in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, ed è, pertanto, inammissibile.
p.4. Il ricorso è, dunque, conclusivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.
Il Pubblico Ministero ha chiesto la condanna ai sensi dell’art. 385 c.p.c., u.c., abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, ma ultrattivo per il giudizio in corso, stante l’art. 58, comma 1, stessa legge.
La richiesta non può essere accolta, atteso che la questione di diritto posta con il primo motivo esclude ogni profilo di colpa grave nella proposizione del ricorso, quantomeno con riguardo alla seconda censura, mai esaminata da questa Corte in termini.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione alle tre parti resistenti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate a favore di ciascuna in Euro ottomiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2015
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