Il risarcimento dovuto al lavoratore in relazione alle differenze retributive ed all’apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato va determinato in ragione dei criteri di cui alla L. n. 183 del 2010.

Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/2012, n. 3305  

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2902/2010 proposto da:

COSMET ARREDAMENTI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. MONTANELLI 11, presso lo studio dell’avvocato ANDRIOLA ALESSANDRO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BISSOCOLI GIOVANNI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso l’avvocato STEFANO GUADAGNO, (c/o lo studio dei professori Avvocati RENATO e CLAUDIO SCOGNAMIGLIO), rappresentato e difeso dall’avvocato MARINO VINCENZO, giusta procura speciale notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 745/2009 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 24/11/2009 R.G.N. 1136/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato BISSOCOLI GIOVANNI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di due sentenze – non definitiva e definitiva – il Tribunale di Genova, sul presupposto della dichiarata nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato stipulato il 1.3.04 fra D.R.M. e la S.r.l.

Cosmet Arredamenti, condannava la seconda a pagare al primo le retribuzioni maturate dalla data (26.7.05) della comunicazione del previo tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., che ravvisava come primo atto di costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro.

In parziale accoglimento del gravame interposto dalla summenzionata società, con sentenza 4 – 24.11.09 la Corte d’appello di Genova riduceva il credito del D.R. alle sole retribuzioni maturate dalla notifica (12.8.06) del ricorso introduttivo di lite, confermando nel resto le statuizioni di prime cure.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la S.r.l. Cosmet Arredamenti affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso il D.R..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1- Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 2909 c.c., per avere l’impugnata sentenza corretto la data di costituzione in mora accipiendi – non più quella del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., ma quella di notifica dell’atto introduttivo di lite – nonostante che l’avere il D.R. ripetutamente chiesto di essere ripreso al lavoro (secondo quanto da lui dedotto in ricorso) fosse stato ritenuto irrilevante dal primo giudice, senza che siffatta statuizione fosse stata poi censurata dal lavoratore con apposito gravame.

Analoga doglianza viene fatta valere nei restanti motivi di ricorso:

sotto forma di denuncia di vizio di extrapetizione con il secondo motivo; ancora sotto il profilo della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., con il terzo motivo (in quanto le reiterate richieste di essere riammesso in servizio di cui parla il D.R. nell’atto introduttivo di lite costituirebbero circostanza non acquisita in atti); nonchè per vizio di motivazione con il quarto motivo, laddove si sottolinea la contraddittorietà fra il reputare, da un lato, inidoneo ai fini della costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro il tentativo obbligatorio di conciliazione e, dall’altro, adeguata a tal fine la generica allegazione del lavoratore (contenuta nel suo ricorso ex art. 414 c.p.c.) di aver più volte chiesto di essere riammesso in servizio.

2 – Tutti i motivi sopra riassunti – da trattarsi insieme perchè sostanzialmente inerenti alla medesima doglianza, sia pure formulata sotto differenti angolazioni -sono da disattendersi.

L’appello principale della S.r.l. Cosmet Arredamenti aveva di per sè devoluto l’intera questione dell’avvenuta costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro, sicchè ben poteva la Corte territoriale (come poi ha fatto) accogliere la doglianza limitatamente al momento di tale messa in mora, ravvisato non più nella comunicazione del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c., (come aveva fatto il primo giudice), bensì nella (successiva) notifica del ricorso introduttivo di lite.

Dunque, a tal fine non erano necessari nè un appello incidentale da parte del D.R. (per altro, non configurabile essendo egli risultato totalmente vittorioso in primo grado) nè la riproposizione da parte sua della questione ex art. 346 c.p.c., norma che concerne domande ed eccezioni, non già mere difese, tali essendo quelle relative alle ripetute richieste del lavoratore di essere ripreso in servizio (sull’inapplicabilità dell’art. 346 c.p.c., alle mere difese v., da ultimo, Cass. Sez. 3^ n. 10811 del 17.5.2011).

Quanto al lamentato vizio di motivazione, non sussiste contraddizione fra il ritenere, da un lato, inidoneo ai fini della costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro il tentativo obbligatorio di conciliazione e, dall’altro, adeguata l’allegazione del lavoratore contenuta nel ricorso introduttivo di lite, avendo il tentativo di conciliazione finalità diversa e ben potendo essere privo di quelle allegazioni – invece – necessarie ai sensi dell’art. 414 c.p.c..

Infine – e ciò risulta dirimente rispetto ad ogni altra doglianza mossa dalla società ricorrente – l’applicabilità al caso di specie dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, (v. meglio infra) ha reso ormai irrilevante ogni discorso sulla mora accipiendi del datore di lavoro in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, poichè detta norma prevede una tutela risareitoria quantificata secondo parametri diversi.

3- Nelle more della trattazione del ricorso è intervenuto la L. n. 183 del 2010, art. 32, che al comma 5 così dispone: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”.

Il successivo comma 7 stabilisce che “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6, trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

La società ricorrente invoca, nella memoria ex art. 378 c.p.c., l’applicazione di tale ius superveniens, cui si oppone – invece – il controricorrente.

Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n. 16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purchè pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che – ove sia invocato la L. n. 183 del 2010, art. 32, riguardo alle conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso, purchè ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine medesimo.

Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1.3.04 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche al presente giudizio di legittimità.

Nel caso particolare dell’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7, anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza n. 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. n. 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza – anche se non la fondatezza – della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a quo (trattandosi di pronuncia di rigetto), restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza n. 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un’interpretazione costituzionalmente conforme.

Orbene, per quanto il tenore testuale del cit. art. 32, comma 5 – riferendosi alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c., – evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarei torio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C..

E poichè una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità.

Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.

In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c., è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6, a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.

In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell’art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.

Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. dell’art. 437 c.p.c., comma 2, poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.

Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437 c.p.c., o come divieto di applicazione dell’art. 32, comma 5, ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l’inciso “ove necessario” e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano “Or”) della congiunzione che precede l’ultima proposizione del cit. art. 32, comma 7, (“ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”).

L’inciso “ove necessariò” dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice dell’interprete.

Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, mentre in appello – proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno consentiti solo questi ultimi.

4 – In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto del cit. art. 32, commi 5 e 7, è applicabile anche in sede di legittimità;

ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione, affinchè determini il risarcimento dovuto al D.R. in una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

P.Q.M.
La Corte, pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata nei sensi di icui in motivazione, con rinvio alla Corte d’appello di Genova in composizione differente anche per le spese.

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