articolo tratto dal sito del COA di Catanzaro

Sussiste la capacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., del lavoratore che, non essendo parte in causa nel processo per il quale venga sentito, a sua volta abbia proposto separatamente analogo giudizio nei confronti dello stesso datore di lavoro.

Lo precisa (confermando l’orientamento tradizionale) la Suprema Corte evidenziando come l’incapacità a testimoniare di cui all’art. 246 cod. proc. civ., è correlabile soltanto ad un diretto coinvolgimento della persona chiamata a deporre nel rapporto controverso e tale da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale o processuale nel giudizio, e non già alla ravvisata sussistenza di un qualche interesse di detta persona in relazione a situazioni ed a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza, anche in qualche modo connessi (cfr. Cass. Civ., Sez. Lavoro, 27 febbraio 2007, n. 4500).

Resta naturalmente rimessa al giudice ogni valutazione sulla effettiva l’attendibilità delle dichiarazioni del teste.

Nell’articolo il testo integrale della decisione.

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAVORO, 7 aprile 2008, n. 8993
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Larino M. C. ha convenuto in giudizio la G. s.r.l. ed i fratelli A. ed M. E., assumendo di aver lavorato alle dipendenze della prima, ma di fatto per conto dei fratelli M.; chiedeva pertanto la condanna in solido delle parti convenute al pagamento di somme varie a titolo di differenze retributive.
La società convenuta restava contumace, mentre i fratelli M. eccepivano la loro carenza di legittimazione passiva, dato che il rapporto di lavoro si era effettivamente svolto alle dipendenze della G..
Nel corso del giudizio il lavoratore rinunziava alla domanda proposta contro i fratelli M..
All’esito del giudizio il Tribunale accoglieva in parte la domanda nei confronti della società.
A seguito di gravame di quest’ultima la Corte di appello di Campobasso, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava l’impugnazione.
Avverso tale decisione la G. ha proposto ricorso.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La Corte ritiene che dalla lettura del ricorso possano identificarsi cinque motivi di censura.
2. Con il primo motivo viene prospettata la violazione dell’art. 420 c.p.c., con vizio di ultra ed extra petizione.
Sostiene la ricorrente che con il ricorso di primo grado la controparte inizialmente aveva formulato due domande volte all’accertamento dei fatti – l’una relativa alle modalità di svolgimento del rapporto e l’altra relativa all’imputabilità del rapporto stesso ai fratelli M. – nonchè un’ulteriore domanda di condanna solidale delle parti convenute nel corso poi dello stesso giudizio di primo grado aveva modificato le proprie istanze e senza alcuna autorizzazione da parte del giudice adito, ha chiesto la condanna della sola società.
Tale censura era stata prospettata in appello, ma la Corte adita non l’aveva condivisa.
Con il richiamato primo motivo, dopo aver riferito quanto sopra, la ricorrente conclude l’esposizione del motivo con il dedurre semplicemente – riferendosi alla sentenza impugnata – che “nulla di tutto ciò è minimamente condivisibile”.
3. Con il secondo motivo – denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 112 e 420 c.p.c., nonchè vizi di motivazione – sostiene la società che il giudice del gravame ha erroneamente ritenuto ammissibile la domanda formulata dal lavoratore per la prima volta nelle note autorizzate, argomentando che nella richiesta di condanna solidale fosse compresa quella di condanna in via esclusiva, non considerando che, in realtà, si trattava di domanda diversa, il cui accoglimento avrebbe violato il principio del contraddittorio. In ogni caso, a voler ravvisare un’ipotesi di emandatio libelli, sarebbe stata necessaria un’autorizzazione del giudice, nella specie inesistente.
4. Con un terzo profilo di censura assume la ricorrente che erroneamente la Corte di Campobasso non ha accolto l’eccezione di irritualità della rinunzia posta in essere dal lavoratore, per varie ragioni:
a) della stessa doveva darsi formale notifica ad essa società;
b) non era idonea allo scopo nella misura in cui è mancata la sottoscrizione del dichiarante nel verbale di udienza;
c) trattandosi di litisconsorzio necessario, doveva essere proposta nei confronti di tutte le parti.
Avendo il giudice dell’appello motivatamente rigettato questa censura, conclude la ricorrente che “la sentenza emessa…è evidentemente erronea ed ingiusta”.
5. Con un quarto motivo – denunziando la violazione della L. n. 1369 del 1960, artt. 1 e 3 artt., 100, 102, 103, 290 – 292 c.p.c., oltre a vizi di motivazione – osserva la ricorrente che, in base alla prospettazione del ricorso di primo grado, era stata configurata l’esistenza di un’interposizione vietata, per effetto della quale effettivi datori di lavoro erano da considerarsi i fratelli M., senza che si potesse in ogni caso ipotizzare una responsabilità solidale della società. Pertanto, o doveva ritenersi che non era necessaria la chiamata in causa della società in questione, ovvero, una volta considerato che la domanda iniziale tendeva ad una decisione che facesse stato anche nei confronti della G., si verteva in ipotesi di litisconsorzio, nel qual caso la rinunzia era inammissibile. In siffatto contesto vi era tutto l’interesse dell’attuale ricorrente a censurare con l’appello la decisione del Tribunale di Larino, in quanto, per effetto della rinunzia nei confronti dei fratelli M., la domanda veniva a concentrarsi sulla società, con l’inevitabile pregiudizio economico, peraltro imprevisto all’atto del ricorso di primo grado.
A conclusione di tale motivo la ricorrente prospetta, in aggiunta a quanto fino ad ora esposto, un’ulteriore vizio di omessa pronuncia in ordine alla mancata previsione nella procura rilasciata al difensore del potere di rinunziare agli atti.
6. Con il quinto motivo è denunziata la sentenza di appello per non aver accolto l’eccezione relativa all’omessa notifica del provvedimento di ammissione dell’interrogatorio formale della G., dato che, una prima udienza – fissata per tale incombente – era stata rinviata di ufficio, senza che di tanto venisse data comunicazione alla società stessa.
Siffatta omissione – a dire della ricorrente – avrebbe comportato la nullità di tutti gli atti posti in essere successivamente, ma la Corte di appello, anzichè disporre nuovamente tale adempimento istruttorio, ha valutato le insufficienti prove acquisite, ritenendole idonee a confortare la decisione di primo grado, incorrendo in un’ulteriore erronea valutazione quanto ai conteggi contenuti nel ricorso di primo grado ed alle varie indennità richieste.
Sempre sotto questo motivo possono essere richiamate le altre critiche mosse alla sentenza impugnata e cioè che:
a) non potevano essere sentiti come testimoni coloro che avevano interesse, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., a partecipare al giudizio;
b) è stata data praticamente rilevanza alla contumacia in primo grado della società, dovuta alla situazione in cui versava (liquidazione e successiva ammissione al concordato preventivo);
c) impropriamente è stata ravviata una decadenza della possibilità di contestare i conteggi contenuti nella sentenza di primo grado, non essendosi considerato che erano state esibite in appello le buste paga relative al rapporto in oggetto, senza che fossero state mosse delle contestazioni.
7. Ritiene la Corte che la sovrapposizione degli argomenti addotti a censura della sentenza impugnata impone di procedere al raggruppamento delle varie questioni secondo un ordinato iter motivazionale.
8. I primi due motivi, nella sostanza, mirano a dimostrare che la rinunzia alla domanda proposta inizialmente nei confronti dei fratelli M. integrerebbe una mutatio o, quanto meno, emendatio libelli non consentita nel vigente assetto processuale.
La tesi è del tutto infondata.
A parte il rilievo che i due motivi si concludono con espressioni che denotano soltanto la non condivisione della motivazione sul punto della sentenza impugnata, senza una specifica indicazione del contenuto del dissenso rispetto a quanto è stato argomentato alla Corte di appello, sta di fatto che la rinuncia alla solidarietà ex art. 1311 c.c., riguarda soltanto quel particolare modo di essere dell’obbligazione, consistente appunto nel vincolo solidale, che consente di agire nei confronti di ciascuno dei debitori per ottenere l’integrale adempimento dell’obbligo. Essa lascia, pertanto, inalterata ed in vita la intera obbligazione, in tutti i suoi aspetti, nei confronti, degli altri debitori non beneficiari della rinuncia medesima.
Di riflesso, mentre nei rapporti esterni con il creditore il beneficiario della rinuncia resta liberato da ogni vincolo, lo stesso creditore conserva l’azione contro gli altri debitori non destinatari della rinuncia, per l’intero suo credito, compresa perciò la quota del beneficiario ex art. 1311 c.c.; ne deriva che, per l’espressa previsione della norma testè citata, il condebitore non destinatario della rinunzia resta obbligato anche per l’originaria quota interna del debitore, che dalla rinuncia abbia tratto vantaggio (cfr. Cass. 28 marzo 2001 n. 4507).
D’altronde se il vincolo solidale è un beneficio che la legge attribuisce al creditore, il quale ha maggiori possibilità – attraverso l’azione proponibile nei confronti di più soggetti – di vedere soddisfatta la sua pretesa, mentre ciascun dei debitori resta comunque vincolato per l’intero, non si vede per quale ragione il singolo soggetto obbligato – non beneficiario della rinunzia – possa aver titolo per opporsi a che il creditore intenda privarsi di un vantaggio che il sistema gli attribuisce. E’ di tutta evidenza che resta integra la possibilità per il debitore non liberato dalla rinunzia di agire in regresso anche nei confronti di chi invece abbia beneficiato della rinunzia stessa, ma tutto questo attiene ai rapporti interni tra i coobbligati, che non tocca la facoltà dell’interessato a non avvalersi di quella maggior forza del suo credito che la legge gli attribuisce attraverso il vincolo della solidarietà.
Sulla base di queste premesse può pertanto affermarsi il seguente principio di diritto: “nel caso di obbligazioni solidali il coobbligato non ha un interesse giuridicamente apprezzabile ad opporsi alla rinunzia fatta dal creditore nei confronti di uno degli obbligati, nè tanto meno a che gli sia data formale notizia di tale rinunzia”. Da queste premesse, con riferimento al caso di specie, discendono le seguenti logiche conseguenze:
a) non si è avuto alcun mutamento dell’originaria domanda nei confronti sia dei fratelli M. che della G.;
b) quest’ultima, in quanto comunque tenuta ex lege per l’intero credito della controparte, non ha titolo per dolersi della rinunzia limitata ai coobbligati e della conseguente concentrazione della pretesa del lavoratore.
9. Quanto osservato in precedenza consente di rigettare il terzo e quarto motivo, perchè, come già ha ritenuto la Corte di appello, la società non ha titolo per dolersi di asserite irritualità della rinunzia, evento rispetto al quale essa è da considerarsi giuridicamente priva di interesse.
10. Anche il quinto motivo è privo di fondamento.
Come ha giustamente osservato il giudice di secondo grado, la mancata notificazione alla parte dell’interrogatorio formale comporta soltanto che degli effetti di un’ impropriamente asserita mancata risposta non possono essere tratti argomenti di prova, così come dispone l’art. 232 c.p.c.. Ciò, però, non impedisce al giudice di tener conto di tutti gli altri elementi acquisiti al processo e, sulla base di questi, decidere la controversia. Tanto si è verificato nel presente giudizio e la Corte di appello – rilevata la inutilizzabilità della mancata risposta all’interrogatorio appunto perchè non ritualmente notificato alla parte; contumace in primo grado – ha valutato le altre risultanze processuali, pervenendo alla conclusione che i fatti posti a fondamento della domanda sono risultati provati, con una valutazione logicamente corretta e, quindi, non censurabile in questa sede di legittimità.
In ordine poi agli altri profili di censura va precisato che:
a) non ricorre incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., per il lavoratore che, non essendo parte in causa nel processo per il quale venga sentito, a sua volta abbia proposto separatamente analogo giudizio nei confronti dello stesso datore di lavoro (Cass. 17 gennaio 1987 n. 387, 6 agosto 2004 n. 15197);
b) nella situazione descritta il giudice deve valutare con una particolare attenzione l’attendibilità del teste, ma ciò è avvenuto nel caso in esame, dato che il giudice di appello ha corroborato la sua valutazione tenendo conto sia del fatto che le deposizioni erano concordi e non contraddette dal alcun diverso elemento acquisito al processo, sia del comportamento processuale della società, la quale, anche nel giudizio di appello, non aveva contestato in maniera precisa le modalità del rapporto;
c) nella sentenza impugnata non si è dato un rilievo determinante alla contumacia in primo grado della società, ma alla condotta processuale complessivamente tenuta e della mancata specifica contestazione anche delle somme richieste ed attribuite dal primo giudice;
d) nel presente giudizio di legittimità la ricorrente ha omesso qualsiasi specificazione in ordine alla non dovuta attribuzione di somme, che nei gradi di merito sono state riconosciute al lavoratore, con la conseguenza che non è data la possibilità di valutare se ed in qual modo possano configurarsi gli asseriti vizi di motivazione.
11. Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere rigettato.
12. Non occorre provvedere sulle spese non avendo la parte intimate svolto alcuna difesa.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Add Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *