A) È noto agli operatori giudiziari che, a supporto di un giustificato motivo oggettivo, le unanimi giurisprudenza e dottrina impongano all’impresa recedente l’onere della prova liberatoria dell’impossibilità di un’utile (e perciò senza sacrificio apprezzabile) reimpiegabilità del lavoratore nel comparto aziendale in mansioni diverse da quelle precedentemente rivestite, in tal modo conferendo all’atto espulsivo la natura di extrema ratio.
Cfr., sul punto, Cass., sez. lav., 11 agosto 1998, n. 7904:
«La legittimità del licenziamento presuppone la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, . . . delle . . . ragioni ostative ad un impiego del medesimo (il lavoratore, n.d.r.) con mansioni almeno equivalenti in luoghi diversi» (conff., ex multis, Cass., sez. lav., 20 novembre 2001, n. 14592, idd., 4 settembre 1997, n. 8505, in Dir. lav., 1998, II, 178, 19 luglio 1993, n. 6814, in Mass. giur. lav., 1993; tra la in Giur. merito, Trib. Roma, sez. lav., 12 febbraio 2003, id., 19 luglio 2002, Trib. Milano, sez. lav., 27 dicembre 2001, id., 31 ottobre 2000, 30 ottobre 2000. In dottrina, per tutti, Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 474).
E’ parimenti noto che, ad avviso dei citati indirizzi, pienamente condivisi dal Tribunale, la menzionata prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente, concernendo un fatto negativo, possa essere assolta mediante l’allegazione dei corrispondenti fatti positivi contrari (Cass., sez. lav., 16 maggio 2003 n. 7717, idd. 13 novembre 2001 n. 14093, 25 agosto 2000 n. 12221, 29 marzo 1999, n. 3030, nonché le risalenti Cass., 11 agosto 1998 n. 7904, 28 aprile 1981, n. 2586 e 15 giugno 1982, n. 3644; tra la giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 12 febbraio 2003, cit., Trib. di Milano, sez. lav., 23 giugno 1999, id., 31 ottobre 2000, 22 novembre 2001).
B) Quanto all’onere probatorio ex art. 5 l. 604/1966, valga la pena di trascrivere la norma:
«L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro».
In premessa, è noto che secondo il diritto vivente l’art. 5 della l. 604/1966 costituisca applicazione della regola generale dell’art. 2697 c.c. e non contempli un’ipotesi d’inversione (cfr., ex plur., Cass., sez. lav., 27 giugno 1994, n. 6172, Pret. Milano 22 settembre 1984; in dottrina, per tutti, Grandi – Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, comm. all’art. 5 l. 604/1966, Padova, 2001, 965, Centofanti, La Cassazione e i licenziamenti disciplinari, in Giur. it., 1977, I, 1).
Ancora, è del pari noto che, in difetto di prova del fatto che si pretende d’introitare nel processo, esso dovrà considerarsi come giammai accaduto se essa non viene fornita, del che è riprova la piena inerenza della prova al merito della res controversa.
Da ultimo, la giurisprudenza è assolutamente unanime nell’assicurare al giudicante la possibilità di dare preferenza, nella formazione del proprio convincimento, a quelle prove che ritenga più idonee allo scopo, conferendo massima espansione al principio ex art. 116, comma 1, c.p.c..
Cfr., in tema, Cass., sez. lav., 17 luglio 2001 n. 9662:
«La valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Consegue che il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova».
Dello stesso tenore, Cass., sez. lav., 10 maggio 2002 n. 6765:
«Il giudice del merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti, anche se allegati, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati» (conff., ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 7 aprile 2003, n. 5434, Cass. 10 novembre 2003 n. 16831, id., 26 ottobre 1993 n. 10620).
C) Sulla sindacabilità giudiziale dei motivi di recesso, è noto che l’unanime giurisprudenza, pur concorde nell’affermare che il magistrato non possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa – pena la violazione dell’art. 41 Cost. –, ritiene censurabile il licenziamento difforme dai canoni di buona organizzazione aziendale e razionalità tecnica, con il risultato che, nel quadro di una gestione ottimale dell’impresa, l’atto espulsivo assume sempre il carattere di extrema ratio (Cass., sez. lav., 20 novembre 2001, n. 14604; conf, id., 30 gennaio 1998 n. 398; conformi, sulla natura di estrema ratio del licenziamento idd., 3 giugno 1994 n. 5401, 28 novembre 1992 n. 12746, 28 febbraio 1992 n. 2461, 23 novembre 1990 n. 11312, 30 ottobre 1990 n. 10461).
Ancora, Cass., sez. lav., 30 gennaio 1998, n. 938, è stata rigorosa nel richiedere al giudice di merito un esame globale e non solo limitato al periodo coevo al licenziamento:
«Il giudice, nell’indagine sulla sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, non può rivolgere la sua attenzione, con formalistica valutazione, alla sola situazione aziendale alla data del licenziamento, ma l’accertamento di merito deve riguardare, in particolare nei casi caratterizzati da aspetti di non trasparenza o di dubbia interpretazione, un intero arco temporale, in modo che sia svelata ogni possibile predeterminazione di circostanze di fatto finalizzate ad una scelta soggettivamente orientata del lavoratore da licenziare. (Nella specie il datore di lavoro, in presenza di un unico posto di cuoco, aveva promosso alla relativa qualifica, un secondo lavoratore – impegnato nelle relative mansioni solo per sostituzioni temporanee – e poi aveva licenziato la persona ordinariamente addetta a tale posto – peraltro rappresentante sindacale – assumendo altri lavoratori di inferiore qualifica per completare l’organico)».
Adesivamente, la dottrina, ha sancito l’illegittimità del licenziamento fondato su esigenze contingenti, pretestuose od occasionali:
«. . . deve anzitutto escludersi con sicurezza che il giustificato motivo oggettivo possa essere costituito da una perdita attesa di entità qualsiasi: se infatti per giustificare il licenziamento fosse sufficiente anche una perdita attesa minima, la norma ne risulterebbe svuotata di ogni effetto limitativo della facoltà di recesso del datore (Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 474).
D) Per chiudere il tema, sia il caso di dar conto della dottrina e giurisprudenza in tema di comunicazione dei motivi del recesso, da comunicarsi dal datore a richiesta del lavoratore ex art. 2, comma 2, l. 604/1966, che si vogliono caratterizzati da specificità e completezza.
Cfr., Cass. civ. sez. lav., 23 dicembre 1996, n. 11497:
« . . . la motivazione del licenziamento deve essere, perché risponda al fine cui è destinata e il datore di lavoro ottemperi realmente all’obbligo posto a suo carico dal 2° comma del citato art. 2 (l. 604/66), sufficientemente specifica e completa, e tale cioè da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del provvedimento espulsivo, sì da poter esercitare un’adeguata difesa, svolgendo ed offrendo idonee osservazioni o giustificazioni. In tale situazione di fatto . . . le conseguenze giuridiche dell’inefficacia del licenziamento dovuta comunque ad assoluta genericità dei motivi, equivalente a mancata contestazione degli stessi, devono rinvenirsi . . . nelle conseguenze previste dall’art. 8 l. n. 604 del 1966, come innovato dall’art. 2 l. n. 108 del 1990, per il caso di licenziamento intimato senza che ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo: conseguenze consistenti nell’obbligo di riassunzione o, in alternativa, di risarcimento del danno mediante pagamento di una indennità di importo compreso tra un minimo di due mensilità e mezzo ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, importo da specificarsi secondo parametri stabiliti nella stessa norma e con possibilità di elevazione del massimo in presenza di condizioni pure legalmente prefissate».
In termini, Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 1998, n. 6091:
«La motivazione del licenziamento – nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore di lavoro la comunicazione dei motivi del recesso – deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento sì da poter esercitare un’adeguata difesa svolgendo ed offrendo idonee osservazioni o giustificazioni» (conf., id., 20 aprile 1985, n. 2364; in dottrina Mazziotti, Forma e procedure dei licenziamenti, in La disciplina dei licenziamenti, a cura di Carinci, 77).
Giorgio Vanacore
Avvocato del Foro di Napoli
Add Comment