1. – Costituisce un dato acclarato presso gli operatori del diritto che il primo presupposto di ammissibilità nel processo civile del procedimento di rendimento dei conti ex art. 263 e ss. c.p.c. sia una situazione di amministrazione dell’altrui patrimonio, tale da concretare, in capo all’amministratore, un obbligo legale o convenzionale di redde rationem.
Obblighi legali di rendiconto si ravvisano, ad esempio, nella materia successoria, in capo all’erede nei confronti dei creditori e dei legatari (art. 496 c.c.), al curatore dell’eredità giacente (art. 531 c.c.), all’esecutore testamentario (art. 709 c.c.), ai condividenti ereditari (art. 723 c.c.).
Obblighi convenzionali di rendiconto, si ravvisano, ovviamente, soltanto in capo a chi, in forza di espresso accordo con altro soggetto, si sia vincolato ad amministrarne il patrimonio ed a descrivergli il risultato contabile della sua attività.
Quanto appena detto è stato approfondito dalla S.C., in una tra le, peraltro non molte, sue pronunce: «Il procedimento di rendiconto, disciplinato negli art. 263-266 c.p.c. è un particolare procedimento fondato sul presupposto dell’obbligo di una delle parti, derivante o dalla legge o dall’accordo delle parti stesse, di rendere il conto all’altra, facendo conoscere il risultato della propria attività, in quanto influente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, nell’altrui e nella propria . . .» (in tal senso, Cass. 29 aprile 1986, n. 2959; conf., id., 20 marzo 1980 n. 1890).
2. – Per ciò che concerne, invece, l’ordine di esibizione ex art. 210 e ss. c.p.c. – altro mezzo istruttorio che, insieme al rendimento dei conti paga il prezzo di una sua “minorità” rispetto ad altri (quali, tra tutte, la prova testimoniale) – deve ricordarsi innanzitutto che esso è espressione del cd. principio inquisitorio e rappresenta una delle eccezioni ai principi dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.) e della disponibilità delle prove processuali (art. 115 c.p.c.), ragion per cui se ne impone un utilizzo – ovviamente per il giudice – cum grano salis.
Secondo l’impianto del codice di rito, il mezzo istruttorio ex art. 210 e ss. c.p.c. può trovare ingresso solo qualora:
a) sia indispensabile per conoscere i fatti della causa (arg. ex art. 118 c.p.c., richiamato dall’art. 210 c.p.c.);
b) il giudice ritenga necessaria l’esibizione (art. 210 c.p.c.);
c) il richiedente abbia, nell’istanza, compiuto la specifica indicazione del documento o della cosa esibenda ed abbia offerto la prova che la parte o il terzo li possegga (art. 94 d. att. c.p.c.).
Sulla necessaria sussistenza di tali requisiti hanno insistito in special modo i giudici della S.C., che hanno altresì richiesto «. . . l’interesse della parte che domanda l’acquisizione del documento . . . (e) la certezza dell’esistenza del documento» (Cass. 5 agosto 2002, n. 11709), ovvero «. . . non già l’ipotetica o generica indicazione di questo [del documento, n.d.r.] . . .» (id., 16 maggio 1997 n. 4363); ciò ad evitare, si prosegue, «. . . indagini istruttorie non pertinenti o comunque non utilmente esperibili» (id., 4 aprile 1997, n. 2935).
Alla luce di quanto detto, quindi, l’istanza ex art. 210 c.p.c. dev’essere accompagnata, quanto meno, ad una circostanziata specificazione del documento, unitamente alla prova – o quantomeno di un principio di prova, liberamente apprezzabile dal giudice ed insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato – che il richiedente l’ordine abbia posseduto il documento medesimo.
In caso contrario, la richiesta ex art. 210 c.p.c. dovrà essere disattesa e dichiarata, pertanto, inammissibile.
Giorgio Vanacore – Avvocato in NAPOLI
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