In tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum.

Cass. civ. Sez. Unite, 28/04/2020, n. 8242

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco M. – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20644/2019 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in Aosta, Passage du Folliex n. 3, presso lo studio dell’Avv. Massimo Balì, che lo rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO ORDINE degli AVVOCATI di AOSTA; PROCURATORE GENERALE presso la CORTE di CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 227/18 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 28/12/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/01/2010 dal Consigliere Dott. ROBERTA CRUCITTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato Massino Balì per il ricorrente.

Svolgimento del processo

Nella sentenza impugnata si legge che, a seguito di presentazione di esposto, vennero contestati, all’Avv. S.M., sulla base di un capo di imputazione articolato in dieci punti, illeciti disciplinari per essere venuto meno ai propri doveri deontologici con violazione degli artt. 6, 8, 38 e 40 previgente codice deontologico forense, avendo omesso di svolgere le attività difensive richieste, malgrado le rassicurazioni reiteratamente date alla cliente.

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Aosta, ritenute non provate le contestazioni di cui ai capi 6), 7), 8) e 9), per le quali pronunciò assoluzione, accertò, invece, la responsabilità dell’incolpato per gli addebiti di cui al capo 1), dichiarando assorbiti, in quanto circostanze aggravanti, gli addebiti di cui ai capi 4), 5) e 10), con l’aggravante dell’inesatto riscontro alle richieste di informazioni da parte dell’assistita che, peraltro, non avevano indotto l’incolpato ad attivarsi per il deposito del ricorso.

In particolare, con tali addebiti era stato contestato, al punto 1, di avere ricevuto dalla cliente incarico di procedere giudizialmente per l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato nei confronti del datore di lavoro della medesima senza attivarsi per il deposito del ricorso, pur avendo richiesto compenso e, ai punti 4 e 5, di avere fornito all’assistita false informazioni sullo svolgimento del mandato, in particolare, con riferimento all’avvenuto deposito del ricorso e della fissazione dell’udienza, anche a seguito della richiesta di chiarimento inoltrata dall’assistita che, effettuate verifiche presso il Tribunale, si era resa conto che nessun ricorso era mai stato effettuato (punto 10).

Il C.O.A. accertò, anche, la responsabilità per gli addebiti di cui ai punti 2 (“avere ricevuto dalla assistita avvisi di accertamento alla stessa notificazioni dall’Agenzia delle entrate relativi al mancato pagamento dell’IRPEF per il periodo di lavoro dipendente oggetto di doglianza, rassicurandola che si sarebbe occupato della questione tenendola sotto controllo e facendola “congelare” fino alla data dell’udienza che sarebbe stata fissata nell’ambito del procedimento di lavoro, onde consentire alla cliente di far fronte al pagamento con le somme da percepire in esito positivo del ricorso, senza mai attivarsi al riguardo”) e 3 dell’incolpazione (“avere ricevuto direttamente dalla assistita presso il proprio studio cartella di pagamento in relazione agli accertamenti di cui al punto 2 del capo di imputazione ed avere rassicurato la stessa che si sarebbe occupato della questione, senza mai attivarsi al riguardo”) e, riconosciuta la violazione dell’art. 6, comma 1, art. 8, art. 38, comma 1 e art. 40, comma 2 Codice deontologico forense e considerata l’assenza di precedenti disciplinari, inflisse la sanzione della censura.

Il Consiglio Nazionale Forense, investito dell’impugnazione proposta dall’Avv. S., con la sentenza oggi impugnata, ne ha parzialmente accolto il primo motivo, disponendo la correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza del C.O.A. di Aosta, non corrispondente a quanto statuito in motivazione e, per il resto, ha rigettato tutti i motivi di impugnazione, confermando la decisione impugnata.

In particolare, il C.N.F. – ritenuto applicabile il nuovo codice deontologico forense e rilevato che, nella specie, il comportamento posto in essere dall’avvocato S., avrebbe potuto concretare anche la violazione dei principi di cui agli artt. 9 e 12 del nuovo C.D.F. – ha, nel merito, rigettato il motivo di impugnazione relativo all’assenza dell’elemento soggettivo per scusabilità dell’errore, ritenendo che, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, fosse irrilevante la sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità…”essendo sufficiente a configurare la violazione l’elemento della suitas della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie, dovendo la coscienza e la volontà essere interpretate in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, di dominarlo”.

Il C.N.F. ha, poi, motivato il rigetto del secondo e del quarto motivo dell’impugnazione, affermando che la motivazione resa dal C.O.A. era immune da censura, per avere quell’organo, “giustamente e equamente giudicato, tenendo conto di tutte le risultanze processuali”.

Con riguardo alla lamentata eccessività della sanzione, ribadito che l’illecito disciplinare sussiste indipendentemente dal verificarsi del danno per la parte assistita e che la sanzione e la sua misura vanno determinate in base alla valutazione complessiva dei fatti, dei comportamenti e, soprattutto, del disvalore che gli stessi comportamenti determinano nella classe forense, il C.N.F. ha reputato adeguata la sanzione applicata, rispetto alla gravità della condotta omissiva posta in essere, siccome lesiva di molteplici valori deontologici e, soprattutto, perchè protrattasi per un consistente lasso di tempo senza alcun ravvedimento da parte del professionista.

Contro questa sentenza l’avv. S.M. propone ricorso, articolato in cinque motivi, cui non v’è replica.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo (rubricato sub II), il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed L. 31 dicembre 2012, n. 247, ex art. 36, comma 4, con riferimento agli artt. 6, 8, 38 e 40 codice deontologico forense previgente, e agli artt. 9, 12, 26 e 27 codice deontologico forense vigente. In particolare, secondo la prospettazione difensiva, il Consiglio nazionale forense, lungi dal ritenere le condotte imputate al ricorrente astrattamente sanzionabili ai sensi degli artt. 9 e 12, 26 e 27 nuovo codice deontologico forense, avrebbe dovuto, prima di tutto, osservare che i comportamenti, ipoteticamente riconducibili al disposto degli artt. 9 e 12 codice deontologico vigente erano, in verità, riconducibili al disposto dell’art. 26 citato codice; con la ulteriore conseguenza che avrebbe dovuto prendere atto del fatto che il nuovo codice deontologico consente l’applicazione, nel caso della violazione del disposto dell’art. 26, comma 3 e dell’art. 27, comma 6, della sanzione attenuata dell’avvertimento e, in conseguenza, avrebbe dovuto motivare per quale motivo la condotta posta in essere, non doveva essere ricondotta ai “casi meno gravi” previsti dall’art. 22, comma 6, codice deontologico forense.

1.1 In tema la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, è ferma nel ritenere che “in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum” (cfr. Cass. Sez. U. n. 3023 del 16/02/2015; n. 18394 del 20/09/2016; n. 27200 del 16.11.2017).

1.2 Nel caso in esame, come risulta dalla sentenza impugnata, all’avv. S. venne contestata la violazione dell’art. 6, comma 1, artt. 8, 38 (inadempimento al mandato) e art. 40 (dovere di informazione) del codice deontologico previgente (R.D.L. n. 1578 del 1933).

Il C.N.F., nella sentenza impugnata, ha evidenziato che tali ultimi illeciti sono stati riprodotti nell’art. 26, comma 3 e art. 27, comma 6, nuovo codice deontologico, che prevedono autonomi apparati sanzionatori e che, al contempo, gli art. 6 e 7 C.D.F. sono stati riprodotti rispettivamente negli artt. 9 e 12 nuovo C.D.F. che non prevedono autonomi apparati sanzionatori ma, al contempo, ha rilevato che, “qualora non si volesse considerare esemplificativo il comportamento posto in essere dal ricorrente per violazione degli artt. 6 e 8 vecchio CDF, ma anche solo suscettibile di ledere i principi generali espressi dal codice deontologico quali, probità, diligenza, lealtà e correttezza potrebbe, comunque, invocarsi la violazione dei principi di cui agli artt. 9 e 12 nuovo CDF”.

Il ricorrente censura la decisione rilevando che i comportamenti contestati erano riconducibili, in concreto, al disposto dell’art. 26 nuovo codice deontologico il quale consente l’applicazione, nel caso della violazione del disposto dell’art. 26, comma 3 e art. 27, comma comma 6, della sanzione attenuata dell’avvertimento con la conseguenza che il C.N.F. avrebbe dovuto motivare per quale motivo la condotta posta in essere dall’incolpato non doveva essere ricondotta ai casi meno gravi previsti dall’art. 22, comma 6, codice deontologico forense.

1.3. La censura è, in parte, inammissibile e, in parte, infondata.

Le argomentazioni svolte dal Consiglio Nazionale forense, fatte oggetto di censura, ovvero la riconducibilità delle condotte poste in essere dall’incolpato alle violazioni dei principi di cui agli art. 9 e 12 nuovo codice deontologico, sono, infatti, state svolte, come evincibile dal tenore della sentenza impugnata, in via ipotetica e subordinata alla vera ratio decidendi posta a base della decisione, ovvero la riproposizione delle disposizioni contestate e accertate come violate, negli artt. 26 e 27 nuovo codice deontologico, invocati dallo stesso ricorrente.

Ora, tali disposizioni prevedono espressamente per la violazione dei doveri, ivi sanciti, la sanzione della censura (poi effettivamente irrogata), con la conseguenza che nessun favor rei è riscontrabile rispetto alle pregresse disposizioni. L’art. 22, invocato dal ricorrente, prevede sì al comma 3, lett. a), che, “nei casi meno gravi, la sanzione disciplinare può essere diminuita all’avvertimento, nel caso sia prevista la sanzione della censura” ma il Consiglio Nazionale Forense, sul punto, ha espressamente pronunciato ritenendo, al contrario, che “la condotta omissiva posta in essere dal ricorrente in violazione di norme deontologiche, che si rileva di particolare gravità e per essersi protratta per un consistente lasso di tempo… non può indurre a sanzionare il fatto con una sanzione di specie diversa più lieve…di quella comminata dal COA territoriale…”.

2. Con il secondo motivo (rubricato sub III) il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 36, comma 6, con riferimento agli artt. 4, 21, 26 e 27 codice deontologico forense vigente, laddove il C.N.F. aveva ritenuto irrilevante l’elemento soggettivo del dolo o, quanto meno della colpa, ai fini della sanzionabilità della condotta, posto che la sanzione presuppone che la condotta posta in essere dall’incolpato sia connotata quanto meno dall’elemento soggettivo della colpa. In altri termini, il ricorrente ribadisce non sussistere dubbio, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, che la condotta per essere censurabile debba essere anche connotata dall’elemento soggettivo, quanto meno, della colpa.

3. Con il terzo motivo di ricorso (rubricato sub IV) si deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed della L. 31 dicembre 2012, n. 247, ex art. 36, comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 4, 21, 26 e 27 del codice deontologico forense vigente. Secondo la prospettazione difensiva l’illegittimità del modus operandi seguito dal C.N.F., conseguente all’interpretazione delle norme che disciplinano l’imputazione soggettiva delle condotte del professionista, si rifletteva anche sulla palese sommarietà della valutazione in ordine al terzo motivo di ricorso sottoposto a quell’Organo. Tale sommarietà aveva comportato che la sentenza impugnata, ritenendo erroneamente che per l’affermazione della responsabilità del professionista, fosse superfluo l’accertamento della sussistenza della colpa, aveva finito per fondare la sanzione disciplinare del ricorrente su una forma di responsabilità oggettiva.

4. Le censure, che per la loro stretta connessione possono trattarsi congiuntamente, sono infondate.

Dal tenore complessivo della sentenza impugnata si evince che l’argomentazione censurata è stata svolta dal C.N.F., sia pur con formulazione non chiarissima, non nel senso ritenuto dal ricorrente, ma al fine di affermare che, nella specie e con riferimento all’assenza dell’elemento soggettivo per scusabilità dell’errore, era irrilevante, al fine di integrare l’elemento soggettivo dell’illecito, la ritenuta sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità….essendo sufficiente a configurare la violazione l’elemento della suitas della condotta.

4.1 Tale argomentazione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite la quale, con la sentenza n. 13456 del 29/05/2017 ha statuito che “in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, in base dell’art. 4 nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti”.

4.2. Al rigetto del secondo motivo di ricorso consegue il rigetto anche del terzo, avente come presupposto l’accoglimento del precedente mezzo di censura.

5. Con il quarto motivo (rubricato sub V: violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed L. 31 dicembre 2012, n. 247, ex art. 36, comma 6, con riferimento agli artt. 6, 8, 38, 40 codice deontologico forense previgente, e agli artt. 9, 12, 26 e 27 del codice deontologico forense vigente) il ricorrente denuncia la sentenza impugnata di errata interpretazione del quarto motivo di ricorso, asserendosi che con lo stesso il ricorrente non si era limitato (come ritenuto dal C.N.F.) a sollecitare una nuova versione dei fatti, ma aveva lamentato la violazione di norme di diritto con la conseguenza che la sentenza impugnata era incorsa in un duplice vizio, avendo omesso, da un lato, di motivare su una doglianza specificamente prospettata dal ricorrente, e dall’altro, per avere ritenuto integrata una serie di violazioni del codice deontologico forense (con particolare riferimento all’obbligo di adempiere con diligenza al mandato e ai doveri di informazione) a fronte di condotte dell’esponente che, in nessun modo, potevano ritenersi riconducibili alle fattispecie sanzionatorie citate, per il semplice fatto che il professionista aveva posto in essere l’unica attività che, da un lato, si era impegnato a compiere e che, dall’altro, non aveva comportato alcun pregiudizio alla sua assistita. 6. In subordine, con il quinto motivo (rubricato sub VI: violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed L. 31 dicembre 2012, n. 247, ex art. 36, comma 6, con riferimento all’art. 21 codice deontologico forense ed eccesso di potere per carenza di motivazione) il ricorrente censura di apparente motivazione il capo di sentenza con il quale il C.N.F. aveva argomentato in ordine alla sanzione applicata, non tenendo in alcun conto nè il grado di colpa, nè l’assenza di qualsiasi attività distruttiva o distruttiva, nè, soprattutto, il ravvedimento del professionista il quale aveva inviato alla cliente una missiva nella quale ammetteva la sua responsabilità.

7. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte a Sezioni Unite (sentenza n. 24647 del 02/12/2016, id n. 20344 del 31/07/2018, n. 30868 del 29.11.2018) le decisioni del Consiglio Nazionale Forense, in materia disciplinare, sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito; non è, quindi, consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sull’assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale.

8. Alla luce di tali condivisi principi gli ultimi motivi di ricorso sono inammissibili. Con gli ultimi due mezzi di impugnazione, infatti, sotto l’egida delle violazioni di legge assertivamente denunciate, si tende, in realtà e inammissibilmente in questa sede, ad una rivisitazione dei fatti storici e a una diversa valutazione degli elementi istruttori offerti rispetto a quelle effettuate dal Consiglio nazionale forense.

9. Di contro, la sentenza impugnata appare adeguatamente e ragionevolmente motivata sia in ordine alla sussunzione della condotta posta in essere negli illeciti disciplinari per i quali è stata riconosciuta la responsabilità e sia in ordine al tipo e misura della sanzione in concreto irrogata, con la conseguenza che la stessa rimane immune da censura.

10. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte il ricorso va, quindi, rigettato senza pronuncia sulle spese in mancanza di attività difensiva.

11. Sussistono i presupposti processuali per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020