In tema di società, la violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, che presiedono anche all’esplicarsi del principio di maggioranza nelle deliberazioni degli organi collegiali, il quale non opera senza limiti intrinseci, dovendo comunque la maggioranza operare nel rispetto dei diritti di tutti i soci, oltre che a fondamento di un’azione di annullamento della deliberazione societaria, ai sensi dell’art. 2377 c.c., può condurre ad eccessi ed abusi di potere da parte del socio di maggioranza (o di chi abbia il relativo diritto di voto), idonei a far sorgere l’obbligo di risarcire il danno cagionato agli azionisti di minoranza. In tal caso, la fattispecie comune si individua in una deviazione dagli scopi sociali, consistente nella fraudolenta attività della maggioranza, volta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e dei connessi diritti patrimoniali spettanti ai singoli soci. In particolare, sono ricondotte a questa categoria le deliberazioni maggioritarie che modificano la preesistente struttura sociale, incidendo in modo diretto o indiretto sulla posizione dei singoli soci rispetto all’originaria configurazione della società.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 6412/2017 proposto da:
N.M.A., M.G.M., K.R., P.S., N.L., C.M., L.E., G.S., B.P., Ci.Va., Ga.St., O.G., R.R., elettivamente domiciliati in Roma, Via Adige n. 43, presso lo studio dell’avvocato Di Pasquale Luciano, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati Arnone Francesco, Franchi Giovanni, giuste procure in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Intesa Sanpaolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, e Pa.Co., elettivamente domiciliati in Roma, Piazza Adriana n. 5, presso lo studio dell’avvocato Vaccari Elena, rappresentati e difesi dall’avvocato Magliani Andrea, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
e contro
Banco BPM S.p.a., già Banco Popolare Soc. Coop., già Banca Popolare di Lodi S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Tommaso Salvini n. 55, presso lo studio dell’avvocato D’Errico Carlo, rappresentato e difeso dagli avvocati Biglia Cristina, Mercanti Giuseppe, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale subordinato;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
F.G.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4667/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 19/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/01/2020 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale;
udito, per i ricorrenti, l’Avvocato Arnone Francesco che si riporta;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale Banco Popolare, l’Avvocato D’Errico Carlo, con delega scritta, che si riporta;
udito, per i controricorrenti Intesa Sanpaolo +1, l’Avvocato Magliani Andrea che si riporta ai propri atti.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano con sentenza del 19 dicembre 2016 ha confermato la decisione del Tribunale della stessa città dell’8 maggio 2013, con la quale era stata respinta la domanda di risarcimento del danno, proposta da alcuni piccoli azionisti di Area s.p.a. contro il Banco Popolare s.c.a.r.I., Banca Popolare di Lodi s.p.a., Intesa Sanpaolo s.p.a., F.G. e Pa.Co..
Gli attori, nel complesso titolari del 2,63% del capitale sociale di Area s.p.a., narravano che l’assemblea del 13 settembre 2004 aveva deliberato – con il voto favorevole della creditrice pignoratizia Banca Popolare di Lodi s.p.a., poi Banco Popolare s.c.a.r.l. e quindi BPM s.p.a., per il 63% del capitale sociale, col voto contrario degli attori e con l’astensione di Intesa Sanpaolo s.p.a., creditrice pignoratizia di un pacchetto pari al 2,67% del capitale sociale – l’azzeramento ex art. 2447 c.c., del capitale di Euro 6.500.000 per perdite di Euro 21.608.664, nonchè la sua ricostituzione ed aumento inscindibile ad Euro 100.000.000 e l’approvazione del progetto di fusione per incorporazione di Area s.p.a. in Bipielle Investimenti s.p.a.
Sostenevano che, tuttavia, la perdita predetta sarebbe stata interamente assorbita dalla previa iscrizione in bilancio della partecipazione sociale in Area Life s.p.a. al valore di mercato, invece che al valore di costo, come era possibile, in base all’art. 2423 c.c., comma 4, in presenza di casi eccezionali quale la progettata fusione.
Al contrario, l’operazione sul capitale aveva comportato la perdita dell’intera partecipazione sociale in titolarità degli attori, che, non essendo più soci, nemmeno avevano avuto diritto al recesso e alla liquidazione della quota per la deliberata operazione di fusione.
La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che:
a) non è nuova la domanda proposta ai sensi degli artt. 2043 e 2049 c.c. – come precisata negli atti di appello – laddove gli attori avevano, nell’atto di citazione, dedotto la commissione di reati da parte dei due amministratori delegati e la responsabilità amministrativa delle banche, ai sensi della L. n. 231 del 1981, art. 5 (rectius, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231), in quanto fondata sui medesimi illeciti, onde si tratta di una mera diversa qualificazione giuridica, la quale appartiene al giudice;
b) circa l’eventualità di valutare la partecipazione posseduta in Area Life al valore economico, l’art. 2423 c.c., lo permette in “casi eccezionali” – da intendere come situazioni oggettive e specifiche inerenti il bene medesimo – e non per la mera esigenza di coprire le perdite di esercizio o per la mera esistenza del maggior valore effettivo, come è stato, ad esempio, chiarito dal giudice di legittimità nella rivalutazione dei beni immobili in patrimonio, allorchè vengano rimossi i vincoli all’edificazione; comunque, devono essere situazioni caratterizzate da certezza, stabilità ed attualità, quale valore effettivamente realizzato e non solo futuro e possibile;
c) nella specie, non sussisteva tale evenienza, tenuto conto del fatto che la prospettata fusione non costituiva un “caso eccezionale”, a differenza della liquidazione della società;
d) non vi è prova che il valore della partecipata Area Life s.p.a. fosse tale da consentire il ripianamento delle perdite, nè del suo effettivo valore economico, dato che la relazione del prof. Ru. ha evidenziato anche la particolare criticità, sotto il profilo gestionale e societario, della società e del gruppo, che richiedeva un intervento di sostegno patrimoniale e di razionalizzazione gestionale; non sono sufficienti ad attestarlo in modo “tranquillante” gli elementi in atti, tenuto conto che le relazioni peritali prodotte sono di parte; la vendita della partecipata, alcuni mesi dopo l’assemblea, per la somma di oltre Euro 58 milioni, non prova il valore alla data dell’assemblea stessa; nè rileva che, nei bilanci successivi, furono adottati diversi criteri, provvedendosi appunto all’emersione di quel valore, perchè comunque la deliberazione ex art. 2447 c.c., restava doverosa ed il danno si lamenta proprio come da essa derivato;
e) il verbale del c.d.a. di Banca Popolare di Lodi del 23 giugno 2004, in cui il F. riferiva dei problemi che avrebbe comportato il recesso dei soci dell’incorporanda Area s.p.a., nell’ipotesi di fusione per incorporazione in Bipielle Investimenti s.p.a., non ha valore confessorio circa l’intento illecito da essi perseguito, posto che ne emerge, piuttosto, una più ampia valutazione sui vantaggi e gli svantaggi dell’operazione di azzeramento del capitale, onde non se ne ravvisa la confessione dell’intento di danneggiare i soci di minoranza.
Ha concluso che il danno patito dagli azionisti non derivò dalla deliberazione di riduzione del capitale per perdite, ma dalle perdite stesse, mentre non sussistevano i casi eccezionali per operare la rivalutazione della partecipazione nella controllata e nessun pactum sceleris fu concluso tra le due banche ed i loro amministratori a danno dei piccoli azionisti.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dai soccombenti, affidato a sette motivi.
Si difendono con controricorso Intesa Sanpaolo s.p.a. e Pa.Co..
Propone controricorso e ricorso incidentale condizionato per un motivo Banco BPM s.p.a..
Le parti ricorrenti e Banco BPM s.p.a. hanno, altresì, depositato le memorie di cui all’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. – Il ricorso principale. Il ricorso propone sette motivi, come di seguito riassunti:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 2423, 2426 e 2735 c.c., perchè la partecipazione nella società Area Life s.p.a. avrebbe dovuto essere rivalutata secondo il valore effettivo, mentre la corte territoriale ha ragionato in analogia al caso, affatto diverso, dell’immobile in bilancio, per nulla equiparabile ad una partecipazione sociale, che ben può essere iscritta secondo il criterio del patrimonio netto; e, nella specie, la controllata valeva circa Euro 54.000.000,00, valore medio indicato nella perizia del prof. Ru., come dimostrato dalla vendita successiva per Euro 58.800.000,00, avvenuta nel dicembre dello stesso anno, onde l’uso di quel criterio avrebbe annullato le perdite di Area s.p.a. ed, anzi, prodotto un utile di periodo; la corte del merito, inoltre, ha errato nel non ritenere integrata la confessione dell’intento lesivo per i piccoli azionisti nel verbale del c.d.a. di BPL s.p.a. in data 23 giugno 2004, quando appunto si erano esposti i problemi che avrebbe potuto presentare l’esercizio del diritto di recesso degli azionisti minoritari; la stessa Banca Intesa s.p.a., lasciando azzerare la sua partecipazione di minoranza, ha evidentemente ricevuto vantaggi inconfessabili dall’intera operazione, sin dalla cessione del credito pignoratizio a BPL s.p.a.;
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 2049 c.c., art. 2423 c.c., comma 4 e art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perchè l’intera operazione e la formazione di un bilancio non conforme ai principi di chiarezza, correttezza e veridicità palesa una condotta dannosa da parte dei due amministratori delegati, Pa. e F., ai sensi dell’art. 2043 c.c., per i soci, con conseguente responsabilità delle due banche ex art. 2049 c.c.;
3) violazione dell’art. 115 c.p.c., per non avere la corte territoriale esaminato e valorizzato adeguatamente il predetto verbale del c.d.a. di BPL s.p.a. in data 23 giugno 2004, nè il valore economico incontestato di Area Life s.p.a.;
4) violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2049 c.c. e art. 115 c.p.c., non avendo la corte del merito accertato l’esistenza del valore minimo di Area Life s.p.a., attestato dalle due perizie e dal prezzo di vendita della stessa;
5) violazione degli artt. 2043, 2049 e 2437-ter c.c., in quanto la sentenza non ha tenuto conto che, a fronte dell’esercizio del recesso del socio, le azioni devono valutarsi a valore di mercato, ulteriore conferma che fosse necessario considerare il valore effettivo della partecipata; inoltre, la creditrice pignoratizia non ha agito nel rispetto del principio di buona amministrazione all’interno dell’assemblea ed ha espresso il voto con abuso di maggioranza, allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci;
6) violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2373 c.c. e art. 115 c.p.c., in quanto fu posto in essere un abuso di maggioranza, posto che il creditore pignoratizio non deve danneggiare il socio suo debitore, gli altri soci e la società, ma invece ciò nella specie è avvenuto, senza che la corte del merito lo abbia rilevato;
7) violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la corte territoriale riscontrato l’esistenza di una serie di reati a carico delle controparti, e cioè quelli di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza, aggiotaggio, appropriazione indebita, illecita influenza sull’assemblea, truffa, falso in prospetto, false comunicazioni sociali in danno dei soci ed infedeltà patrimoniale.
2. – Il ricorso incidentale. Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato, il Banco BPM s.p.a. deduce la violazione degli artt. 183 e 345 c.p.c., oltre alla nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto le controparti hanno più volte modificato il quantum del risarcimento richiesto, nonchè introdotto per la prima volta in appello il riferimento agli artt. 2043 e 2049 c.c., ma la corte territoriale ha disatteso l’eccezione relativa, ritenendo immutati i fatti illeciti dedotti: in particolare, gli attori avevano in origine allegato la responsabilità amministrativa della banca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 5, che, però, non attiene al risarcimento del danno per responsabilità civile; nè è chiaro quale sia la figura criminosa che corrisponderebbe alla pretesa illegittimità della deliberazione ex art. 2447 c.c.. Ma la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e quella civile da danni si fondano su presupposti affatto diversi: sul punto, la motivazione d’appello è solo apparente.
3. – La sentenza impugnata. La corte d’appello, nel premettere che le domande dal primo giudice e da essa stessa esaminate sono quelle di cui agli artt. 2043 e 2049 c.c., giudicate non nuove e così dalla medesima qualificate, ha ritenuto che l’azione è volta al risarcimento del danno per i fatti illeciti, commessi dai due a.d. e dalle due banche a danno dei piccoli azionisti, culminati nell’assunzione della deliberazione assembleare del 13 settembre 2004, recante le operazioni ex artt. 2438 e 2447 c.c., sulla base di un bilancio che recava la posta relativa alla società partecipata Area Life al costo storico, quando, appena tre mesi dopo, essa fu venduta al prezzo di Euro 58.800.000,00 ed i bilanci successivi lo abbiano in corrispondenza iscritto.
L’illecito è imputato dai soggetti danneggiati in primis agli amministratori delegati delle due banche, in ragione della commissione di fatti integranti illecito civile ex art. 2043 c.c., che avrebbero ordito l’intera operazione, ed in secondo luogo alle banche medesime, da quelli rappresentate, in quanto creditrici pignoratizie con diritto di voto in Area s.p.a..
In effetti, tutti i motivi del ricorso principale insistono nella prospettazione dei medesimi fatti, plurime volte ripetuti, in modo a volte anche slegato dalle norme di legge, la cui violazione o falsa applicazione si lamenta.
4. – Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale. A questo punto, si possono trattare i motivi del ricorso principale, iniziando dai primi due, i quali lamentano la violazione e falsa applicazione delle norme di redazione del bilancio, di cui agli artt. 2423 e 2426 c.c., in quanto la rivalutazione della partecipazione nella controllata al criterio del netto sarebbe stata, nell’assunto della ricorrente, obbligatoria.
I motivi, che sul punto possono ricevere una risposta unitaria, sono da disattendere.
Non coglie nel segno la critica rivolta alla sentenza impugnata, secondo cui essa sarebbe incorsa in errore nel citare un precedente di legittimità concernente l’immobilizzazione materiale di immobili in bilancio: invero, il richiamo non ha in sè valore determinante, essendo operato solo al fine dell’ampio ragionamento svolto circa la possibilità della rivalutazione della posta attiva.
Soprattutto, gli amministratori della società non avevano tale obbligo, invece postulato dai motivi in esame.
L’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, prevedeva, già all’epoca dei fatti, la possibilità di valutare le immobilizzazioni consistenti in partecipazioni nelle società controllate o collegate per un importo pari alla corrispondente frazione del patrimonio netto, in tal caso imponendo la costituzione di una apposita riserva non distribuibile.
La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto lascia emergere, invero, la cd. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in date evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opti per tale criterio.
Ma torna la logica prudenziale del legislatore, allorchè viene imposta per legge la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, una restituzione di patrimonio ai soci e una lesione all’integrità del capitale sociale. La regola è dettata per evitare il rischio di indebite uscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, che si distribuisca ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità.
Il valore della plusvalenza va dunque accantonato in una riserva non distribuibile, sino a quando il maggior valore emerso per effetto della deroga non abbia trovato effettiva realizzazione, per lo più a seguito della monetizzazione del bene al quale quel maggior valore era stato attribuito.
Tale scelta alternativa risponde, pertanto, alla discrezionalità dell’organo amministrativo, ferma la cautela della appostazione della detta riserva non distribuibile.
Ne deriva l’infondatezza della tesi, sostenuta dai due motivi, della obbligatorietà di tale rivalutazione.
5. – Il terzo ed il quarto motivo. Il terzo e quarto motivo possono essere congiuntamente trattati, in quanto sono affetti dal medesimo vizio di inammissibilità.
Essi, infatti, lamentano, pur sotto l’egida della dedotta violazione dell’art. 2735 c.c. e art. 115 c.p.c., da un lato l’apprezzamento in fatto del valore confessorio di un verbale consiliare, dall’altro l’apprezzamento, parimenti in fatto, circa il reale valore economico della società partecipata, che sarebbe dimostrato da due perizie e dalla vendita della stessa, come avvenuta tre mesi dopo la deliberazione: circostanze che, pur proposte come violazione di legge, consistono, invece, in valutazioni in fatto, interamente riservate al giudice del merito e che non possono essere riproposte in sede di legittimità.
6. – Il quinto ed il sesto motivo. I motivi quinto e sesto sono inammissibili, in quanto nuovi.
Con essi i ricorrenti principali lamentano, in particolare, che il voto espresso in assemblea dalla creditrice pignoratizia maggioritaria abbia integrato una condotta dannosa illecita, in quanto tenuta con cd. abuso di maggioranza, allo scopo di ledere gli interessi dei soci minoritari, in violazione degli artt. 1175, 1375 e 2373 c.c..
Si tratta, tuttavia, di questione nuova.
Come risulta dalla domanda iniziale e dalla decisione di primo grado, riportata nel corpo della motivazione della sentenza di appello, gli attori nell’atto di citazione dedussero il compimento di reati da parte di F.G. e Pa.Co., integranti, nell’assunto, diverse fattispecie delittuose (ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza, aggiotaggio, appropriazione indebita, illecita influenza sull’assemblea, truffa, falso in prospetto, false comunicazioni sociali in danno dei soci ed infedeltà patrimoniale); dedussero, altresì, la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in capo alle società rispettivamente amministrate, la BPL s.p.a. e Banca Intesa s.p.a., ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Tanto è vero che il tribunale spese una lunga motivazione, al fine di analizzare le prove in atti ed escludere l’esistenza degli elementi costitutivi di detti reati; mentre sia il tribunale, sia la corte d’appello non hanno mai esaminato gli elementi costitutivi del cd. abuso di maggioranza in assemblea da parte della creditrice pignoratizia BPL s.p.a., cui Banca Intesa s.p.a. avrebbe concorso, insieme ai rispettivi amministratori delegati.
Essi, invece, come ha chiarito del resto la corte territoriale nel ritenere non modificata la domanda iniziale, si sono limitati ad accertare incidentalmente l’esistenza, o no, dei reati dedotti dagli attori ed a trarne l’eventuale conseguenza in sede civile, sul piano risarcitorio, ai sensi degli art. 2043 c.c. (quanto al fatto illecito dagli attori riferito alle due persone fisiche) e art. 2049 c.c. (responsabilità dei padroni e committenti, quanto al fatto illecito dagli attori imputato alle due persone giuridiche).
Mai, invece, è stata nei giudizi di merito prospettata la diversa fattispecie del cd. abuso di maggioranza in assemblea: tanto è vero che tale ricostruzione giuridica, all’opposto di quella prescelta dagli attori, vede come fatto illecito-base – per violazione della regola della correttezza e buona fede – la condotta tenuta in occasione della riunione assembleare dal soggetto titolare del voto maggioritario, e, solo in seguito, in relazione ad un possibile concorso nell’illecito, la condotta concorrente eventualmente tenuta da altri soggetti, che all’adozione della deliberazione lesiva abbiano cooperato.
Invero, occorre in generale ricordare come, oltre che a fondamento di un’azione di annullamento della deliberazione societaria, ai sensi dell’art. 2377 c.c., la violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, che presiedono anche all’esplicarsi del principio di maggioranza nelle deliberazioni degli organi collegiali – il quale non opera senza limiti intrinseci, dovendo comunque la maggioranza operare nel rispetto dei diritti di tutti i soci – può condurre ad eccessi ed abusi di potere da parte del socio di maggioranza (o di chi abbia il relativo diritto di voto), suscettibili di integrare una causa, oltre che di annullabilità delle deliberazioni assembleari pur regolarmente adottate, del sorgere dell’obbligo di risarcire il danno cagionato agli azionisti di minoranza.
In tal caso, la fattispecie comune si individua in una deviazione dagli scopi sociali, consistente nella fraudolenta attività della maggioranza volta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e dei connessi diritti patrimoniali spettanti ai singoli soci.
In particolare, sono ricondotte a questa categoria le deliberazioni maggioritarie che modificano la preesistente struttura sociale, incidendo in modo diretto o indiretto sulla posizione dei singoli soci rispetto all’originaria configurazione della società (cfr. Cass. 17 luglio 2007, n. 15950; Cass. 17 luglio 2007, n. 15942; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151; Cass. 5 maggio 1995, n. 4923; Cass. 4 maggio 1994, n. 4323).
Ma la difesa degli attori non ha introdotto nel giudizio di merito questa prospettazione e questi elementi costitutivi, onde non è possibile poi modificare la domanda in sede di giudizio di legittimità.
Si ricorda che, secondo il costante orientamento, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, di modo che è preclusa la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi o introducano, comunque, piste ricostruttive fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli allegati nelle precedenti fasi processuali (cfr. Cass. 13 aprile 2004, n. 6989); inoltre, qualora una determinata questione giuridica che implichi un accertamento di fatto sia stata del tutto ignorata dal giudice di merito, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Corte di controllare de visu la veridicità di tale asserzione (cfr. Cass. 24 gennaio 2019, n. 2038; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 2 aprile 2014, n. 7694; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 31 agosto 2007, n. 18440).
7. – Il settimo motivo. Il settimo motivo è infondato.
Esso lamenta una inesistente violazione dell’art. 112 c.p.c., basata sul fatto che, nell’assunto, la corte territoriale avrebbe dovuto accertare l’esistenza di una serie di reati a carico delle controparti.
In sostanza, la sentenza impugnata ha ritenuto assente la novità nella evocazione degli artt. 2043 e 2049 c.c., quali titoli della rispettiva responsabilità per i danni cagionati dalle condotte dei due a.d. e delle due banche, in quanto ha reputato i fatti dedotti concernenti, sin dall’inizio, la vicenda societaria esposta – ed ha ritenuto che il richiamo, reiterato nel non perspicuo ricorso, alla commissione di reati lasciava comunque sussistere le domande proposte innanzi al giudice civile, come volte all’accertamento dei fatti illeciti imputati dai piccoli azionisti ai convenuti, ciascuno per le proprie condotte, ed alla condanna al risarcimento del danno da essi patito.
La sentenza impugnata ha dunque condivisibilmente ricondotto le allegazioni di parte alle fattispecie di illecito civile, ritenute azionate in questa sede, senza necessità di accertare specificamente a fini sanzionatori gli elementi costitutivi degli illeciti penali, pure allegati come integrati dalle medesime condotte, e come tali ha esaminato le condotte allegate, senza incorrere nel denunziato vizio di omessa pronuncia.
8. – Il ricorso incidentale condizionato. Resta assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato.
9. – Spese. Le spese di lite seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi primo, secondo e settimo del ricorso principale, dichiarati inammissibili gli altri; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità, che liquida: a) in favore di Intesa Sanpaolo S.p.a. e Pa.Co., in via di solidarietà attiva, nella somma di Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie sui compensi nella misura del 15% ed agli accessori come per legge; b) in favore di Banco BPM S.p.a., nella somma di Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie sui compensi nella misura del 15% ed agli accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, se dovuto, del ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020