scrimA norma dell’art. 2044 c.c. è previsto che non è civilmente responsabile colui il quale cagioni un danno per legittima difesa. Tale norma tuttavia, non contiene alcun riferimento alla condizione relativa alla proporzione tra la difesa e l’offesa, per cui non può dubitarsi che la norma civile abbia recepito la nozione dell’esimente penalistica in tutti i suoi elementi, compresa la condizione di proporzionalità tra offesa e difesa, in assenza della quale la reazione difensiva, trasmodando in eccesso, cessa di essere legittima difesa e configura un fatto contra jus, soggetto a sanzione penale e fonte di obbligazione risarcitoria.

Cass. civ. Sez. III, 29/01/2016, n. 1665     

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28088/2012 proposto da:

D.S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BORGO PIO 44, presso lo studio dell’avvocato SACCHETTO Stefano, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.S.C. (OMISSIS);

– intimato –

nonchè da:

D.S.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, V. C. MONTEVERDI 20, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO LAIS, rappresentato e difeso dall’avvocato ACCEBBI Daniele giusta procura speciale a margine del ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

D.S.A. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 2238/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/10/2011, R.G.N. 2650/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/2015 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato LUCA PUSATERI per delega non scritta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 28-29 dicembre 2008 il Tribunale di Vicenza, a seguito di domanda di risarcimento di danni da illecito penale proposta da D.S.A. nei confronti del fratello D.S. C., che si era costituito presentando domanda riconvenzionale di risarcimento di danni, condannava D.S.C. a risarcire D.S.A. nella misura di Euro 260,64, oltre interessi, e condannava altresì D.S.A. a risarcire il fratello nella misura di Euro 13.779,90 oltre interessi. Avendo D.S.A. proposto appello, la Corte d’appello di Venezia lo ha respinto con sentenza del 6 luglio – 17 ottobre 2011.

2. Ha presentato ricorso D.S.A., sulla base di cinque motivi.

Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 651 c.p.p. D.S. C. era stato condannato dal giudice penale con sentenza divenuta definitiva, ove si era accertato che egli aveva aggredito il ricorrente, il quale si era difeso, per cui il giudice penale aveva affermato che le lesioni riportate da D.S.C. “sono la conseguenza della legittima difesa” operata dal fratello.

Erroneamente la corte territoriale non avrebbe tenuto conto di tale descrizione del fatto, escludendo che il giudicato penale si fosse esteso ad accertare la liceità della reazione di D.S.A. all’aggressione di D.S.C..

Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2044 c.c. e art. 52 c.p., nonchè vizio motivazionale, violazione dell’art. 2697 c.c., in riferimento agli artt. 2043 e 2044 c.c. e art. 52 c.p. e altresì violazione degli artt. 2043 e 1227 c.c. e art. 55 c.p., per avere il giudice d’appello affermato che la teste D.S.L. nulla avrebbe detto sulle modalità di difesa di D.S.A., deducendone che ciò “impedisce di ritenere escluso l’eventuale eccesso di difesa” nonchè di “ritenere accertata la legittima difesa stessa”. Ad avviso del ricorrente, sussistevano invece i presupposti per ritenere la condotta integrante legittima difesa e, quanto all’eccesso di questa, non sarebbe corretto farsene gravare l’incertezza su chi l’avrebbe compiuto, come invece ritenuto dal giudice d’appello in violazione della disciplina del riparto dell’onere della prova.

Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 2043 e 2044 c.c., artt. 52 e 55 c.p., in relazione all’art. 2947 c.c., per omessa valutazione da parte della corte territoriale dell’elemento soggettivo correlato alla condotta di D.S.A. nello scontro col fratello, presupponendone apoditticamernte la natura dolosa.

Il quarto motivo lamenta violazione degli artt. 2043, 1228 e 1226 c.c., nonchè art. 3 Cost. e vizio motivazionale quanto agli esiti della c.t.u. sull’assunta concausa patologica (piorrea) della lesione, consistente nella caduta di tre denti, che il ricorrente avrebbe inflitto al fratello.

Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 368 c.p. e art. 2043 c.c., nonchè vizio motivazionale per avere escluso il giudice d’appello il dolo di calunnia nella querela presentata da D.S. C. a carico del fratello, considerato che questa non ha attribuito ad D.S.A. solo il reato di lesioni personali ex artt. 582 e 582 c.p., ma anche i reati di cui agli artt. 594, 612 e 581 c.p., per di più artatamente tacendo sulla potenziale causa di giustificazione di legittima difesa.

Ha presentato controricorso e ricorso incidentale subordinato D. S.C., chiedendo il rigetto del ricorso e denunciando, nel caso in cui sia accolto, come unico motivo del ricorso incidentale la sussistenza di vizio motivazionale nella sentenza impugnata, in relazione alle effettive dichiarazioni della testimone D.S. L., sorella dei due litiganti, da cui sarebbe emerso che il ricorrente in realtà poteva evitare lo scontro con il fratello, e che comunque fu lui a provocarlo, per cui non sarebbero configurabili nè la scriminante della legittima difesa, nè tantomeno il suo eccesso colposo.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è parzialmente fondato.

3.1 Denuncia il primo motivo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 651 c.p.p., in considerazione del fatto che nella motivazione della sentenza penale di condanna di D.S.C. si ritiene “accertato che fu l’odierno imputato D.S.C., che si trovava all’interno dell’abitazione della sorella G., ad uscire vedendo transitare il fratello A., ad aggredirlo prima verbalmente poi fisicamente gettandolo a terra e percuotendolo, mentre D.S.A. si difendeva dall’aggressione”, e si dichiara altresì che le testimonianze acquisite consentono “di affermare con tranquillità che l’imputato D.S.C. si è reso effettivamente responsabile del reato…e che le lesioni da lui subite sono la conseguenza della legittima difesa posta in essere dall’aggredito”. La corte territoriale, lamenta il ricorrente, erroneamente avrebbe invece rilevato che nella sentenza di condanna di D.S.C. è stata accertata “irrevocabilmente l’illiceità del fatto commesso dal suddetto D.S.C., che è stato ritenuto aver aggredito il fratello senza che sussistessero scriminanti a suo favore, ma non la liceità o meno delle modalità di reazione dell’appellante”. La descrizione del fatto di reato avrebbe in realtà incluso la condotta meramente difensiva della vittima e avrebbe raggiunto il valore di giudicato ex art. 651 c.p.p., comma 1, nel successivo giudizio civile risarcitorio nell’attestare l’assenza di antigiuridicità nella condotta, appunto, di D.S.A..

Il motivo in esame ripropone, chiaramente, una doglianza già prospettata al giudice d’appello e in effetti disattesa da quest’ultimo affermando che la sentenza di condanna di D.S. C. accerta l’illiceità del fatto commesso da lui, ma non la liceità della condotta della sua vittima, in ordine alla quale era stato emesso peraltro decreto di archiviazione (dopo la colluttazione col fratello anche D.S.C. aveva penalmente denunciato l’attuale sua controparte e ciò era sfociato in un decreto di archiviazione), che non ha in quanto tale alcun valore di giudicato, non precludendo dunque al giudice civile “l’accertamento dell’eventuale sussistenza di un fatto reato”.

Ferma l’irrilevanza del decreto di archiviazione nei confronti di D.S.A., riconosciuta dallo stesso ricorrente che fonda infatti il suo motivo sulla sentenza di condanna a carico di D. S.C., non può non rilevarsi che l’art. 651 c.p.p., comma 1, conferisce alla irrevocabile sentenza penale di condanna sortita da dibattimento “efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso” nel giudizio civile restitutorio o risarcitorio promosso nei confronti del condannato. Il giudicato, pertanto, investe chiaramente solo la condotta di quest’ultimo, dal momento che all’accertamento della sussistenza del fatto si connette l’accertamento della sua illiceità e della sua commissione da parte dell’imputato. Rimane esterno a questo ambito, invece, il fatto commesso da un soggetto diverso dall’imputato, e tanto più l’accertamento della liceità della condotta di un soggetto diverso dall’imputato. Nè, ovviamente, il fatto che l’accertamento della condotta dell’imputato abbia implicato l’accertamento, da parte del giudice penale, anche dell’esistenza di una correlata condotta della vittima e la liceità o meno di quest’ultima può condurre a un ampliamento dell’efficacia esterna dell’accertamento penale, sia per il chiaro dettato dell’art. 651, sia per l’evidente impostazione sistemica di autonomia tra il giudizio penale e il giudizio civile (la dismissione del concetto di unità di giurisdizione e della conseguente prevalenza della giurisdizione penale sulla giurisdizione civile, non riproducendo una regola come quella dell’art. 3, comma 2, del previgente codice, fu immediatamente considerata dalla dottrina processualista come uno dei tratti più caratterizzanti della riforma operata mediante il vigente codice di rito penale; nella giurisprudenza, ex multis, v. Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15112;

Cass. sez. lav., 18 gennaio 2007 n. 1095; Cass. sez. 2, 25 marzo 2005 n. 6478), che trova limite in una incidenza non ermeneuticamente estensibile in quanto costituente norma di eccezione (sulla non estensibilità dell’efficacia di giudicato di una sentenza di condanna penale in ordine alla condotta di soggetti diversi da quelli nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale cfr. Cass. sez. 3, 28 maggio 2015 n. 11117 e Cass. sez. 3, 28 marzo 2001 n. 4504).

Il motivo, in conclusione, risulta privo di fondatezza.

3.2.1 Il secondo motivo è proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento agli artt. 2043, 2044 e 1227 c.c., nonchè artt. 52 e 55 c.p., denunciando altresì correlato vizio motivazionale.

Il motivo si articola in più doglianze.

Censura in primo luogo il ricorrente la sentenza impugnata per avere ritenuto dirimente il fatto che “nulla viene riferito circa le modalità con cui l’appellante si difese e con cui furono prodotte le lesioni riscontrate al Pronto Soccorso”, deducendone “di ritenere escluso l’eventuale eccesso di difesa così come di ritenere accertata la legittima difesa stessa”. Evidenzia il ricorrente che per accertare un eccesso difensivo occorrerebbe un prognostico giudizio sulla proporzionalità della reazione in rapporto alla concreta situazione in cui il soggetto veniva a trovarsi, comparando la condotta lesiva e il conseguente pericolo creato dall’aggressore con le lesioni a questo cagionate.

In secondo luogo il ricorrente censura il giudice d’appello per violazione delle norme sul riparto dell’onere della prova, avendo detto giudice ritenuto che spetta all’aggredito dimostrare compiutamente di non avere ecceduto, per cui una semipiena probatio grava su di lui anzichè sull’aggressore, imponendosi così alla vittima di questo la prova di un fatto negativo e potenzialmente indefinito.

Osserva infine il ricorrente che, anche qualora si ritenesse che D. S.A. abbia reagito in modo illecito cagionando quindi danno risarcibile al fratello, l’azione antigiuridica che determina la reazione difensiva di un aggredito danneggiante non è considerabile come una mera occasione bensì come causa concorrente del danno cagionato, in conformità con l’art. 1227 c.c., laddove il giudice d’appello ha addossato interamente a D.S.A. la responsabilità patrimoniale per il danno che avrebbe subito D. S.C..

3.2.2 Per meglio comprendere il motivo in esame, è opportuno preliminarmente sintetizzare lo svolgimento dei fatti, come ricostruiti nel ricorso e nel controricorso-ricorso incidentale.

I due fratelli, per quanto emerso in particolare dalle dichiarazioni della sorella teste oculare, D.S.L., si scontrarono dapprima in una lite verbale, e poi, dopo un’ulteriore ingiuria del fratello, D.S.C. passò all’aggressione fisica, gettando a terra D.S.A. e percuotendolo; quest’ultimo a sua volta percosse l’aggressore, come dedotto dal fatto che quando si rialzarono da terra entrambi avevano il volto insanguinato.

Come si è visto nella illustrazione del motivo precedente, il giudice penale interpretò la vicenda nel senso che le percosse inflitte dall’aggredito D.S.A. al fratello aggressore D.S.C. fossero manifestazione di una legittima difesa; a fronte della domanda risarcitoria riconvenzionale di D.S. C., tale fu la linea difensiva in sede civile di D.S. A., che fu però ritenuta infondata dal giudice di prime cure, il quale attribuì all’attore una completa responsabilità aquiliana per le lesioni subite dal fratello.

Quale secondo motivo d’appello, D.S.A. aveva censurato proprio l’esclusione della legittima difesa, e la corte territoriale ha disatteso la censura sulla base della seguente motivazione: “Nel caso in esame la teste D.S.L. ha riferito – come sottolinea l’appellante – che C. si era avventato contro A. facendolo cadere a terra e che “quando si sono alzati avevano entrambi il volto insanguinato”; in pratica, nulla viene riferito circa le modalità con cui l’appellante si difese e con cui furono prodotte le lesioni riscontrate a Pronto Soccorso il che impedisce di ritenere escluso l’eventuale eccesso di difesa così come di ritenere accertata la legittima difesa stessa; dai diversi criteri che presiedono alla formazione della prova nel processo civile rispetto al processo penale deriva infatti che il dubbio ovvero la “semipiena probatio” si risolve in danno del soggetto che invoca la scriminante (Cass. 25.2.2009 n. 4492)”.

3.2.3 In primo luogo, non si può non rilevare che il vizio motivazionale denunciato dal ricorrente sussiste sotto forma di palese contraddittorietà in questa concisa motivazione: dopo avere appena affermato che “l’appellante si difese”, seppure per rimarcare che non sarebbe stato dimostrato con quali modalità l’avrebbe fatto, il giudice d’appello esclude tout court tanto la legittima difesa quanto l’eccesso di difesa, svuotando di ogni significato il fatto, pur appena riconosciuto, che vi era stata una violenta aggressione da parte di D.S.C. al punto da buttare a terra il fratello e comunque da insanguinargli il volto.

Ad abundantiam, si nota altresì che l’autonomia della giurisdizione civile rispetto alla giurisdizione penale al di fuori delle ipotesi disciplinate dagli artt. 651, 652 e 654 c.p.p., non giustifica un’assoluta omissione di vaglio da parte del giudice civile di merito delle argomentazioni difensive che una parte prospetti deducendole da prove effettuate in sede penale o dalla motivazione di sentenze penali attinenti – pur senza valore di giudicato – alla stessa vicenda posta come oggetto di cognizione del giudice civile (sull’utilizzabilità per la formazione del libero convincimento da parte del giudice civile di elementi attingibili da un giudizio penale pervenuto al giudicato si richiama la giurisprudenza sopra citata a proposito dell’autonomia delle giurisdizioni, e in particolare il più recente arresto, Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15112, laddove conferma che, nonostante l’autonomia suddetta, “il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in cosa giudicata e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo”;

d’altronde la formazione del libero convincimento da parte del giudicante deve sempre rapportarsi al contributo accertatorio delle parti che costituisce concretizzazione dell’esercizio del diritto di difesa). E nel caso di specie è più che evidente che il giudice d’appello, nella sua stringatissima confutazione della doglianza che adduceva come provata l’esistenza della legittima difesa in un contesti complessivo di richiamo agli esiti probatori e decisori del giudizio penale svoltosi a carico di D.S.C., ha sostanzialmente pretermesso l’esame delle argomentazioni dell’appellante.

3.2.4 Il centro del motivo in esame, peraltro – che è di tale pregnanza da assorbire le doglianze ulteriori -, deve identificarsi a ben guardare nella censura attinente all’applicazione del riparto probatorio nella fattispecie in esame.

L’art. 2044 c.c., stabilisce che non è civilmente responsabile chi cagiona danno per legittima difesa, senza menzionare l’eccesso di legittima difesa. Implicito ma indubbio è però il richiamo agli artt. 52 e 55 c.p. (sull’inequivoco rinvio alla normativa penale v., p. es., Cass. sez. 3, 24 febbraio 2000 n. 2091, nonchè Cass. sez. 3, 22 ottobre 1968 n. 3394, la quale evidenzia che nel rinvio implicito alle disposizioni penali regolanti l’istituto della legittima difesa risulta compresa l’ipotesi di eccesso colposo); e dell’art. 52, comma 1, detta un duplice presupposto di legittimità: la costrizione “dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta” nonchè la proporzionalità alla condotta illecita che origina tale necessità, dal momento che la completa non punibilità, ovvero la assoluta legittimità della commissione del fatto difensivo, si verifica “sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa” (cfr. ex multis già Cass. sez. 3, 5 agosto 1964 n. 2227 – che sottolinea come, benchè l’art. 2044 c.c. “nel sancire l’esonero da responsabilità civile per colui che ha cagionato il danno per legittima difesa non riproduce espressamente la condizione relativa alla proporzione tra la difesa e l’offesa, non può tuttavia fondatamente dubitarsi che la norma civile abbia recepito la stessa nozione dell’esimente penalistica in tutti i suoi estremi costitutivi, ivi compresa la predetta condizione, senza della quale la reazione difensiva, per effetto del suo trasmodare in eccesso, cessa ovviamente di essere legittima, ponendo in essere un fatto contra jus, soggetto a sanzione penale e fonte di obbligazione civile risarcitoria”; sulla stessa linea, Cass. sez. 3, 16 febbraio 1978 n, 753, Cass. sez. 3, 25 maggio 2000 n. 6875 – per cui l’art. 2044 c.c., “disponendo che la responsabilità per danni sia esclusa quando il danno è arrecato per difendere sè od altri contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che vi sia proporzione tra difesa e offesa, scrimina il fatto nella sua interezza. In tal modo si differenzia dall’eccesso colposo di legittima difesa nel quale, venendo a mancare il requisito della proporzionalità, vi è come conseguenza che la reazione difensiva, per effetto del suo trasmodare in eccesso, termina di essere legittima dando luogo ad un fatto illecito soggetto alla sanzione penale e fonte di obbligazione civile risarcitoria”, Cass. sez. 3, 25 febbraio 2009 n. 4492 e Cass. sez. 3, 28 agosto 2009 n. 18799). Dalla insussistenza di proporzionalità scaturisce poi l’eccesso colposo di cui all’art. 55 c.p., da intendersi nel senso che qualora detta proporzionalità sia oltrepassata, “si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi” se il fatto è previsto dalla legge come tale.

Occorre tuttavia rilevare che, in realtà, i due presupposti appena richiamati (costretta reazione a una condotta illecita e proporzionalità della reazione) non si collocano sullo stesso piano di incidenza. A ben guardare, infatti, la costrizione all’azione reattiva è pregiudiziale al rilievo della proporzionalità della stessa, dal momento che in difetto di necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta l’applicabilità della scriminante ex art. 52 c.p. è già esclusa, assorbendosi logicamente ogni profilo di “calibro” dell’azione suddetta. Ma, mentre l’inesistenza del primo requisito depriva di ogni rilevanza il secondo, quest’ultimo non è idoneo a incidere parimenti sul primo. Invero, qualora si tratti di reazione costretta dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di una difesa ingiusta, il mancato rispetto della proporzione in tale difesa non rende totalmente illegittima la difesa stessa, nel senso che questa comunque non può integrare reati dolosi. La legittimità della difesa, pertanto, risulta erosa solo parzialmente dalla carenza di proporzione all’offesa: la condotta ex art. 55 c.p., viene a costituire un eccesso (cioè un’entità che si rapporta a un quid legittimo comunque sussistente e permanente) colposo e a integrare, quindi, se previsto dalla legge per tale fatto, un delitto colposo.

La struttura della scriminante de qua, dunque, è composta da un elemento primario, positivo e imprescindibile – la reazione necessaria (e perciò costretta) al pericolo attuale di una offesa ingiusta, cioè di un illecito – nonchè da un elemento secondario, che rileva esclusivamente nel caso in cui si presenti in veste negativa (sproporzione della reazione), e i cui effetti sono circoscritti dall’elemento primario (proprio perchè la reazione è costretta da un pericolo attuale di offesa ingiusta l’elemento soggettivo di un eventuale eccesso non può essere doloso, dal momento che la volontà di reagire di chi ha posto in essere la condotta è stata “coartata”; solo la colpa pertanto può integrare l’elemento soggettivo).

3.2.5 Questi rilievi – che meriterebbero un maggiore approfondimento, in questa sede ovviamente non esperibile – non possono non riverberarsi sulle modalità di accertamento giuridico dell’esistenza di una legittima difesa nonchè dell’esistenza di una difesa, per così dire, semilegittima, cioè inquinata da una colposa sproporzione ma comunque giammai dolosa. Ed è allora il momento di esaminare l’effettivo contenuto della pronuncia di questa Suprema Corte invocata dal giudice d’appello per gravare D.S.A. dell’onere della prova di avere agito per difesa completamente legittima, adducendo altresì che in caso di residuo dubbio deve escludersi ogni legittimità nella condotta di D.S.A. (e infatti, si anticipa fin d’ora, avendo la corte territoriale ritenuto inadempiuto l’onere probatorio di D.S.A., essa è giunta ad affermare che questi, non potendosi ravvisare nella sua condotta alcun elemento scriminante, ha commesso un reato di lesioni personali dolose gravi nei confronti del fratello D.S.C.).

Si tratta della già citata Cass. sez. 3, 25 febbraio 2009 n. 4492, la quale afferma che, pur rinviando sostanzialmente l’art. 2044 c.c., all’art. 52 c.p., per la nozione di legittima difesa, occorre tener conto sia del generale favor rei che si applica nel settore penale, sia delle diverse regole di formazione della prova sussistenti nel processo civile e nel processo penale, per cui, in caso di semipiena probatio sull’esistenza della scriminante, in sede penale ciò comporta l’assoluzione dell’imputato ex art. 530 c.p.p., comma 3, mentre in sede civile ciò non libera affatto dalla responsabilità il soggetto che la invoca e su cui incombe il relativo onere della prova.

Il principio affermato dal suddetto arresto altro non è che il richiamo al fondamentale canone in dubio pro reo che governa la formazione della necessaria prova penale (e non solo) – ovvero l’onere probatorio dell’esistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato gravante sul pubblico ministero -, e che ovviamente non sussiste nel processo civile, dove (quantomeno nelle cause non riconducibili all’art. 70 c.p.c.) non si contrappone un interesse pubblico “forte” a un interesse privato “debole” e pertanto da favorire nella dialettica processuale, bensì confliggono interessi paritariamente privati. Ma nel caso esaminato in tale pronuncia la situazione fattuale era del tutto diversa da quella del caso in esame in questa sede, essendosi attestata in quello in una fase a priori, che invece in questo è stata superata tramite un accertamento intangibile, cioè il giudicato penale.

La vicenda, infatti, riguardava una colluttazione di due persone, colluttazione di cui si ignorava chi aveva dato l’avvio, ovvero chi aveva creato un pericolo di offesa nei confronti dell’altra persona.

Nel caso in esame, invece, sussiste un giudicato penale nel senso che D.S.C. ha commesso reato nei confronti di D.S. A., avviando la colluttazione come offesa ingiusta al fratello.

E’ chiaro, dunque, che in una situazione in cui non era stato identificato l’aggressore, la reciproca invocazione della legittima difesa si collocava, sul piano probatorio, in una posizione del tutto diversa rispetto alla invocazione della legittima difesa da parte di chi si è trovato costretto a reagire a una indiscutibilmente già accertata condotta criminosa della sua controparte. Nella vicenda esaminata dalla pronuncia del 2009, il giudice di merito aveva irragionevolmente introdotto il principio in dubio pro reo nella responsabilità civile ritenendo che, in quanto invocata da ciascuno dei litiganti e benchè non dimostrata pienamente da nessuno di loro (proprio perchè, a priori, non era stato possibile identificare chi aveva per primo aggredito), la legittima difesa doveva presumersi come sussistente. E il giudice di legittimità, pertanto, ha censurato questo palese errore di diritto sulla base della non utilizzabilità in sede civile – dove vige la regola opposta – del dubbio probatorio in senso favorevole a chi ha l’onere di provare, prendendo le mosse, però, proprio dalla impossibilità di accertare l’originaria aggressione di uno all’altro.

3.2.6 Ritornando, allora, a quanto sopra si è sintetizzato sulla struttura della scriminante ex artt. 52 e 55 c.p., non si può non rilevare che, nel caso in esame, D.S.A. aveva adempiuto il suo onere probatorio nel senso di dimostrare una sua difesa almeno parzialmente legittima come condotta originante i danni il cui risarcimento era stato riconvenzionalmente chiesto da D.S. C.: si era infatti potuto avvalere del giudicato penale per dimostrare l’esistenza non di per sè della sua legittima difesa (come risulta dal precedente motivo, ciò non rientra nell’ambito del giudicato penale che incide in sede civile) bensì l’esistenza del presupposto fondamentale della legittima difesa, cioè di un reato commesso nei suoi confronti dallo stesso D.S.C.; e la natura di tale reato emerge come del tutto congrua – la condotta è consistita in una violenta aggressione fisica a D.S.A., che gli ha procurato infatti anche lesioni personali – a costringere la vittima a una reazione difensiva, riconducibile allora all’art. 52 c.p..

Quel che residuava, a questo punto, era la prova della proporzionalità della reazione difensiva, così da valutare se era stata completamente legittima o parzialmente legittima, in quest’ultimo caso con responsabilità per l’eventuale integrazione di delitto colposo generante, sul piano civile, il conseguente obbligo risarcitorio. D.S.A. aveva dimostrato di avere posto in essere una condotta comunque riconducibile all’art. 52 c.p. (l’art. 55 c.p., concerne infatti, come emerge chiaramente dal dettato letterale, “fatti preveduti” – tra gli altri – dall’art. 52).

Dimostrare di non avere (colposamente) ecceduto i limiti – questo sarebbe stato il suo ulteriore onere probatorio se si segue l’impostazione del giudice d’appello, visto altresì il dettato dell’art. 55 che traduce il requisito di proporzionalità dell’art. 52 – sarebbe stato quindi per lui dimostrare un fatto negativo, proprio come ha denunciato il ricorrente richiamando S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533.

E’ il caso allora di rilevare che la tradizionale interpretazione del quanto mai logico brocardo negativa non sunt probanda ne ha aggirato, non senza una vena sofistica, il contenuto, sostenendo che è da intendersi non come esclusione o inversione dell’onere della prova avente ad oggetto un fatto negativo, bensì come indicazione che la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova di fatti positivi contrari (v. p.es. Cass. sez. 1, 16 luglio 1969 n. 2612; Cass. sez. 1, 6 dicembre 1972 n. 3515; Cass. sez. 1, 22 ottobre 1976 n. 3741; Cass. sez. 3, 20 febbraio 1998 n. 1780; Cass. sez. 2, 15 aprile 2002 n. 5427; Cass. sez. 3, 11 gennaio 2007 n. 384; cfr.

pure Cass. sez. 3, 13 giugno 2013 n. 14854, che tempera la tradizionale impostazione nel senso della alternatività/fungibilità tra prova di fatto positivo contrario e utilizzo di presunzioni da cui possa desumersi il fatto negativo). Posizione, questa, che vive del postulato che ad ogni fatto negativo corrisponda l’esistenza di uno specifico fatto positivo contrario (per così dire, il fatto antipodale), e che questo sia sempre conoscibile dal soggetto interessato a far valere il fatto negativo. Quest’ultima porzione del postulato che sorregge appunto il suddetto tradizionale orientamento attinente, in termini di diritto positivo, alla interpretazione dell’art. 2697 c.c., è stata infine percepita come una criticità dalle Sezioni Unite nell’arresto – peraltro notissimo – invocato dal ricorrente, nella cui motivazione si ammette che la lettura tradizionale costituisce non una interpretazione “correttiva” del logico brocardo, bensì la sua sostituzione nel sistema del riparto probatorio con una regola differente: ciò laddove le Sezioni Unite rimarcano che “nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale “negativa non sunt probanda”, ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari”. E questa regola differente, riconosce il giudice nomofilattico, non è appagatale, in quanto in realtà consiste in “una tecnica probatoria non agevolmente praticabile” per la difficoltà di identificare i fatti positivi contrari idonei a dimostrare il fatto negativo. Da qui, significativamente poco dopo avere affermato il principio della presunzione di persistenza del diritto come evincibile dall’art. 2697 c.c., le Sezioni Unite hanno, nella fattispecie contrattuale che era oggetto del loro vaglio, identificato la tutela della “esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore” – pur preservando il diritto di difesa della sua controparte – in un diverso criterio di riparto probatorio, cioè il “principio di riferibilità o di vicinanza della prova”, che assume come parametro la presenza dell’oggetto della prova nella sfera di conoscenza della parte che è tenuta – conseguentemente – a dimostrarlo.

Il principio di prossimità della prova, che si traduce nell’attribuire a chi aveva, secondo la precedente impostazione, l’onere di provare il fatto negativo un mero onere allegatorio e nell’attribuire alla sua controparte l’onere di provare il fatto positivo contrario, è stato in seguito applicato sempre nell’ambito contrattuale/negoziale (cfr. tra gli arresti massimati Cass. sez. 3, 28 maggio 2004 n. 10297; Cass. sez. 3, 21 giugno 2004 n. 11488; Cass. sez. 1, 4 maggio 2012 n. 6799). Peraltro, essendo la natura del fatto negativo, con le correlate difficoltà probatorie, identica sia nel settore contrattuale che nel settore extracontrattuale, anche in quest’ultimo l’applicazione del criterio tradizionale può venire a costituire la difficoltà probatoria che le Sezioni Unite hanno ritenuto esigere correzione, e che invero si pone in contrasto, d’altronde, con i principi (a prescindere poi da quelli sovranazionali) di cui agli artt. 24 e 111 Cost., che esigono una interpretazione ad essi sensibile anche dell’art. 2697 c.c..

3.2.7 Ritornando allora al caso concreto in esame, non si vede per quale motivo il soggetto che ha posto in essere una condotta comunque riconducibile all’art. 52 c.p., debba essere gravato pure dell’onere di dimostrare che questa condotta non è stata eccessiva: ovvero, debba essere gravato di un onere probatorio che può essere di difficoltoso adempimento – non è detto che il soggetto che si è difeso abbia potuto avere conoscenza completa delle conseguenze della sua reazione difensiva sull’aggressore, mentre è certo che rientra nella sfera di conoscibilità di quest’ultimo ogni conseguenza su di lui della difesa dell’aggredito. Dimostrando l’esistenza dell’illecita aggressione che l’ha costretto a difendersi, il soggetto aggredito, si ripete, ha già dimostrato di avere posto in essere una condotta riconducibile all’art. 52 c.p.: l’attenuazione degli effetti dell’applicazione dell’art. 52 c.p., per concomitante sussistenza dei presupposti applicativi dell’art. 55 c.p. è configurabile, quindi (nell’ambito, a ben guardare, della presunzione del diritto scaturente dall’art. 2697 c.c., riconosciuta dal sopra citato arresto delle Sezioni Unite con valenza generale in quanto attinente alla norma che regola il riparto probatorio e non alla specifica fattispecie sostanziale che era in esame), come fatto modificativo degli effetti del diritto alla difesa esercitato dall’aggredito, la cui prova pertanto dovrà essere fornita da chi ha appunto subito tali effetti. Ma pure qualora si intendesse qualificare fatto costitutivo della legittima difesa l’assenza di eccesso (erroneamente, peraltro, poichè come si è visto l’eccesso non fa venir meno in toto la legittimità della difesa, soltanto affiancando al diritto di difesa la responsabilità per delitti colposi) non risulterebbe corretta l’impostazione della corte territoriale, dovendosi logicamente intendere inclusa nella allegazione della legittima difesa l’allegazione di una totale legittimità della propria condotta difensiva, onde a fronte dell’onere probatorio di chi invoca la scriminante del requisito primario della fattispecie ex art. 2044 c.c., artt. 52 e 55 c.p. (la necessità di difendersi da ingiusta offesa) devesi logicamente attribuire, in forza del principio della prossimità della prova (le modalità eccessive di difesa si riconoscono ordinariamente dalle caratteristiche delle conseguenze lesive della difesa sull’aggressore) alla controparte, se invoca la fattispecie di cui all’art. 55 c.p., l’onere di provare che la difesa è stata eccessiva: il che, nell’ottica della controparte appunto, logicamente non è più un fatto negativo, bensì un fatto positivo ben riconducibile alla sua sfera di conoscenza.

Il secondo motivo del ricorso, in conclusione, assorbite le ulteriori doglianze in esso riversate, risulta fondato, per avere la corte territoriale erroneamente ricostruito ia responsabilità di D. S.A. sia non tenendo conto del giudicato penale sull’esistenza di un reato commesso da D.S.C., sia gravando l’appellante di un onere probatorio non suo in ordine a un preteso eccesso colposo di difesa.

3.3 Il terzo motivo non può che fruire di quanto appena osservato a proposito del secondo motivo.

Lamenta il ricorrente che, nel disattendere il terzo motivo d’appello volto a far valere la prescrizione del preteso diritto risarcitorio di D.S.C. perchè derivabile esclusivamente da reato colposo del fratello ex art. 55 c.p., la corte territoriale ha attribuito all’appellante un reato doloso. In effetti, in un’ottica singolarmente avulsa sia dal giudicato penale sull’esistenza di un reato commesso da D.S.C., sia da ogni prospettazione di D.S.A. in ordine alla sua reazione alla suddetta accertata condotta criminosa del fratello (come già evidenziato a proposito del vizio motivazionale denunciato nell’ambito del multiplo secondo motivo), con una laconicità assertiva la corte territoriale, in condivisione peraltro con il primo giudice, afferma che “il reato astrattamente ascrivibile all’attore, essendo certe le sue lesioni ma non l’esistenza di una scriminante, è quello previsto dall’art. 582 c.p., art. 583 c.p., n. 2 (lesioni personali dolose gravi), reato che si prescriveva in dieci anni”. Si rimanda, pertanto, ai rilievi già svolti vagliando il secondo motivo, per concludere nel senso della fondatezza pure del terzo motivo del ricorso.

3.4 Il quarto motivo è rubricato come denuncia di vizio motivazionale affiancato a violazione degli artt. 2043, 1223 e 1226 c.c., nonchè art. 3 Cost.. Quel che viene ad essere criticato però, a ben guardare, non è realmente l’apparato motivativo, al riguardo conforme, dei giudici di merito di primo e di secondo grado sulla perdita nella colluttazione di tre denti incisivi da parte di D. S.C., nè tantomeno le norme invocate in rubrica, bensì la valutazione del c.t.u., in ordine all’incidenza di una eventuale concausa della perdita dei tre denti, cioè una piorrea alveolare. Ma anche qualora potesse orientarsi la critica almeno alla motivazione della sentenza impugnata, non essendo in realtà evincibile nella sentenza impugnata alcun vizio motivazionale laddove il giudice d’appello si è conformato alla valutazione dell’ausiliario tecnico, tale critica si collocherebbe ineludibilmente su un piano puramente fattuale, laddove rimane precluso al giudice di legittimità valutare la condivisibilità o meno dell’accertamento fattuale operato dal giudice di merito.

Il motivo deve pertanto disattendersi.

3.5 Il quinto motivo è direttamente – e dunque inammissibilmente – fattuale come quello appena esaminato, in quanto concerne il diniego da parte del giudice d’appello del risarcimento dei danni che all’appellante sarebbero derivati dalla – calunniosa, secondo l’attuale ricorrente – denuncia querela presentata da D.S. C. nei confronti del fratello. Il motivo si intesse, infatti, di una ricostruzione del tutto fattuale in ordine al contenuto della denuncia querela suddetta, che, oltre al reato di lesioni personali dolose, avrebbe attribuito a D.S.A. anche i reati di cui agli artt. 594, 612 e 581 c.p. e che sarebbe poi stato accertato come calunnioso in forza del giudicato penale di condanna di D.S. C. (argomentazione quest’ultima, si nota per inciso, evidentemente infondata dato che oggetto del giudicato penale di condanna è stato, come già si rilevava a proposito del primo motivo di ricorso, solo il reato denunciato da D.S.A. nei confronti del fratello) e in forza della archiviazione della denuncia querela nei confronti di D.S.A. (si nota sempre per inciso che anche questa argomentazione risulta priva di pregio, nessuna valenza di accertamento essendo attribuibile all’archiviazione). Inammissibilmente pertanto il ricorrente persegue da parte del giudice di legittimità una versione alternativa che “corregga” l’accertamento di merito al riguardo compiuto dal giudice d’appello (più che significativa, al riguardo, è la trascrizione nell’ambito del motivo del verbale di ricezione di denuncia querela cui fa seguito – ricorso, pagina 33 – l’enunciazione che è “opposta la ricostruzione dei fatti siccome operata dalla pronuncia gravata”).

Il quinto motivo, per quanto si è osservato, va quindi a sua volta disatteso.

L’accoglimento del ricorso per quanto concerne il secondo e il terzo motivo, in conclusione, assorbe logicamente il ricorso incidentale subordinato proposto da D.S.C. e comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della corte territoriale.

P.Q.M.

Accoglie il secondo e il terzo motivo del ricorso, rigettando gli altri motivi e dichiarando assorbito il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2016

Add Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *