1. – In generale.
La giurisprudenza e la dottrina in atto sono sufficientemente compatte nell’affermare che i comportamenti delittuosi (o, comunque, di grave insubordinazione, ancorché non integranti un autonomo titolo di reato) realizzati dal prestatore di lavoro possano collocarsi – a conclusione di accertamento incidentale positivo – nella giusta causa di licenziamento ex artt. 2119 c.c. e 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604, attentando essi alla fiducia, costituente, per entrambe le parti, un requisito causale non espresso del rapporto di lavoro subordinato.
Del menzionato avviso è la S.C., siano i delitti in questione commessi in ambito intra od extra lavorativo: «Anche un atto di violenza del lavoratore in danno di un altro dipendente dello stesso datore di lavoro, e a maggior ragione quindi di un direttore di società, ancorché realizzato fuori dell’ambito aziendale, può costituire giusta causa di licenziamento quando è connesso a motivi di lavoro e sia idoneo a scuotere la serenità e normalità dei rapporti di colleganza tra i lavoratori e di collaborazione fra questi ed il datore di lavoro» (Cass., sez. lav., 8 febbraio 1993 n. 1519; conff., idd., 13 aprile 2002 n. 5332, 14 luglio 2001 n. 9590, 4 settembre 1999 n. 9354, 22 agosto 1997 n. 7884, 10 luglio 1996 n. 6293, 22 novembre 1996 n. 10299, 10 luglio 1996 n. 6293, 4 novembre 1995 n. 11500, 20 luglio 1987 n. 663).
Al menzionato indirizzo, che vuole sanzionati i comportamenti delittuosi commessi dal dipendente pur in ambiente extraziendale, a nulla varrebbe opporre il disposto all’art. 8 della legge 20 maggio 1970 n. 300, che, com’è noto, vieta al datore soltanto «. . . di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore», in tal modo riferendosi alla sola violazione della riservatezza sui luoghi di lavoro.
In premessa, si rammenta che la dizione di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., che in giurisprudenza si è concordi nel ritenere “norma elastica” (per tale espressione, si veda Cass., 4 dicembre 2002 n. 17208), è adoperata per riferirsi a qualunque «. . . causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. . . ».
La giusta causa, per quanto detto, non può non annoverare i fatti di reato ascritti al dipendente, ex se chiaramente sintomatici di grave allarme e sempre giustificanti il recesso datoriale, oltre che ovviamente, e prima di tutto, disciplinarmente rilevanti.
Tale ultimo tema trova concordi i giudici di merito e di legittimità, ferme restando concrete soluzioni case by case.
La giurisprudenza di merito, assume che «La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro ed in particolare dell’elemento della fiducia che deve sussistere tra le parti. Tale valutazione va effettuata non con riferimento al fatto astrattamente considerato bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo» (Tribunale di Parma, 9 gennaio 2001). La giurisprudenza di legittimità sembra farle eco col dire che «L’operazione valutativa compiuta dal Giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c. che, in tema di licenziamento, reca una norma elastica, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l’operazione valutativa non è censurabile se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4 Cost., con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’art. 41 Cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall’art. 2106 c.c., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata, conformandosi così agli ulteriori standards valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e di fedeltà, anche alla luce del disvalore ambientale che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell’impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi» (Cass., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208).
La sentenza n. 17208/2002 ha deciso il caso di un dipendente artefice di un ammanco di cassa di modesta entità, riscontrandovi i requisiti di una giusta causa di recesso, individuati come segue:
a) violazione di specifici doveri di fedeltà e correttezza;
b) un danno non particolarmente esiguo;
c) una posizione lavorativa di responsabilità;
d) la violazione di regolamenti aziendali;
e) la presenza di un elemento psicologico (così, Mannacio, nota a Cass., sent. 17208/2002 cit., Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 4/2003, 348).
Sulla stessa direttrice il seguente arresto: «Nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento della fiducia, che deve continuamente sussistere tra le parti; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente» (Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza con cui il giudice di merito aveva rigettato l’impugnativa di licenziamento comminato per il rifiuto di far controllare il contenuto di una borsa all’uscita dello stabilimento, in relazione all’astratta tipologia dell’infrazione, senza procedere a verifiche circa l’esistenza di precedenti disciplinari a carico dell’interessato – vantante un’anzianità di 25 anni di servizio – la natura delle mansioni e il presunto valore dei beni tutelati, costituiti, secondo l’allegazione del lavoratore, da prodotti alimentari di non particolare valore) (così, Cass., sez. lav., 29 ottobre 1999, n. 12197; conff., idd., 2 febbraio 1998, n. 1016, 21 novembre 2000, n. 15004, 8 maggio 2000, n. 5822).
Così l’orientamento di merito: «Costituisce causa di licenziamento del dipendente, in quanto determina la perdita di ogni fiducia del datore di lavoro, la falsificazione da parte del lavoratore dei cartellini di presenza di due colleghi, fatto questo costituente addirittura un’ipotesi di reato. Ne deriva che ove il comportamento addebitato al lavoratore sia contrario alla legge penale e alle più elementari regole di correttezza e di convivenza civile, l’affissione del codice disciplinare nulla può aggiungere alla consapevolezza che lo stesso deve avere, come cittadino prima che come lavoratore, della illegittimità del suo operato, sicché il licenziamento intimatogli è legittimo anche ove sia mancata l’affissione del codice disciplinare» (Pret. Milano, 13 dicembre 1996).
Inoltre – sempre in relazione al caso della falsa timbratura del cartellino marcatempo, anche se il tenore della pronuncia investe profili strettamente penalistici – in Cassazione si è sostenuto che «Con la timbratura del cartellino marcatempo di presenza il dipendente pone in essere un atto tipico univocamente diretto a dimostrare la sua presenza nel luogo di lavoro per la prestazione lavorativa. Pertanto, qualora in seguito ad accertamento risulti l’assenza del lavoratore, la falsa timbratura integra gli estremi del delitto di tentata truffa aggravata ai sensi degli art. 56 e 640 c.p.» (Cass. pen., 26 luglio 1995, n. 20296).
Esaminando concretamente gli atti del prestatore giustificanti il recesso, si è pure concordi sul fatto che non vada tenuta in conto la violazione singolarmente considerata: «In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli partitamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutarli complessivamente» (Cass., sez. lav., 16 settembre 2002, n. 13536; conf., Pret. Torino 11 novembre 1996).
Il fulcro del tema in epigrafe resta, così, quello della condotta infedele, di fronte alla quale ogni altro elemento – non ultimo il pregiudizio patito dal datore in termini, in ipotesi, di “cattivo esempio” che l’atto delittuoso impartisce ai colleghi di lavoro di chi lo realizza – trascolora, come ancora si è sostenuto: «Ai fini dell’accertamento della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c., l’entità materiale del danno subito dal datore di lavoro, a causa della condotta del lavoratore, ha un rilievo del tutto secondario, dovendosi tener conto delle modalità di tale condotta e della sua idoneità a scuotere irreparabilmente l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 1 febbraio 1990, n. 659)».
2. – Previo necessario avvio (e conclusione) del cd. procedimento disciplinare ex art. 7, legge 20 maggio 1970 n. 300.
Tutto quel che si è affermato in precedenza deve, in ogni caso, essere raccordato al contenuto dell’art. 7, legge 20 maggio 1970 n. 300, dettante importanti prescrizioni in capo al datore, assolutamente prodromiche a qualsivoglia irrogazione di licenziamento, pur quando questo avvenga a seguito dei citati fatti di reato attuati dal lavoratore.
Trattasi, com’è noto, delle disposizioni dello Statuto in tema di avvio (e conclusione) del procedimento disciplinare, prescriventi i seguenti doveri al datore:
a) affissione del codice disciplinare (comma 1);
b) necessaria contestazione scritta dell’addebito ed audizione del lavoratore, che ha diritto all’assistenza legale e o sindacale (commi 2 e 3);
c) impossibilità di disporre sanzioni disciplinari modificanti l’assetto del rapporto lavorativo e di irrogare multe e o sospensioni dal servizio disancorate da precisi parametri quantitativi (comma 4);
d) necessario decorso di almeno cinque giorni dalla contestazione scritta dell’addebito disciplinare prima di procedere all’applicazione della sanzione (comma 5);
e) non tenuta in conto, ad alcun effetto, delle sanzioni disciplinari decorso un biennio dalla loro applicazione (comma 8).
Interrogatisi sull’ubi consistam del potere disciplinare del datore, gli operatori hanno affermato che esso non riposi su di una puntuale norma (collettiva o del codice disciplinare) di volta in volta da richiamarsi nell’addebitare le negligenze al dipendente, ma nel generico potere delineato dal codice civile all’art. 2119 c.c.: «Il ricorso con cui è impugnato un licenziamento per giusta causa non può ritenersi nullo nella parte in cui è fatta valere la violazione dell’art. 7, primo comma, della legge n. 300/1970 per vizio relativo alla esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda la domanda, in quanto, dato il preciso contenuto di tale disposizione, tale censura implica il chiaro riferimento alle relative garanzie in materia di pubblicità del codice disciplinare» (nella specie, la S.C. ha escluso la rilevanza della mancata affissione del codice disciplinare, dato il carattere indiscutibilmente antigiuridico dei comportamenti contestati al lavoratore – falsi in scrittura privata – a prescindere dalla loro gravità o rilevanza penale) (Cass., sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5299). Concorde, sul punto, la seguente massima: «L’intimazione del licenziamento per motivi disciplinari, determinato da mancanze costituenti reato anche colposo ovvero per violazioni di divieti legali o per comportamenti in contrasto con l’etica comune, può avvenire legittimamente anche in assenza della preventiva affissione del codice disciplinare, purché siano comunque osservati gli obblighi di contestazione dell’addebito e di concessione al lavoratore della possibilità di difesa (Cass., sez. lav., 22 agosto 2002 n. 11212).
Ancora, da ultimo: «Il carattere ontologicamente disciplinare del licenziamento, mentre implica la necessità della preventiva contestazione degli addebiti. . . e della possibilità di difesa del lavoratore, il potere di recesso del datore di lavoro per giusta causa o per giustificato motivo. . . debba essere esercitato in ogni caso previa inclusione dei fatti contestati in un codice disciplinare ed affissione del medesimo. Tali ultimi adempimenti non sono infatti necessari in relazione a quei fatti il cui divieto (sia o no penalmente sanzionato) risiede nella coscienza sociale quale minimo etico e non già nelle disposizioni collettive o nelle determinazioni dell’imprenditore» (Cass., sez. lav., 20 ottobre 2000, n. 13906).
Su tali linee pure il giudice del merito: «La nozione di giusta causa di recesso è nozione legale (art. 2119 c.c.), e proprio per questo, tanto più con riguardo a fatti di rilievo penale e contrari a regole di civiltà, non richiede previsioni ad hoc nel codice disciplinare, le quali, se presenti, danno luogo a fattispecie tipizzate (comunque sottoposte a controllo giudiziale di congruità) e non pongono fuori della nozione comportamenti diversi (Corte d’Appello di Milano, 27 settembre 2002; conf., Pret. Milano, 13 dicembre 1996, cit., id., 28 dicembre 1999).
Si tenga conto che la res litis di cui all’importante sentenza della S.C. n. 11212/2002, sopra citata, è stata offerta da un licenziamento irrogato ad una lavoratrice riconosciuta autrice di un falso ideologico commesso in danno dell’impresa, e ciò in sede di giustificazioni presentate a seguito del provvedimento di recesso.
In proposito, nel testo della sentenza, la Corte così si esprime: «. . . secondo la giurisprudenza di questa Corte, pur attestatasi nel ritenere la natura ontologicamente disciplinare di ogni licenziamento motivato da un comportamento imputabile a titolo di colpa al lavoratore, resterebbe tuttavia un’area residuale in cui il licenziamento per giusta causa non rientra nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, quando cioè, non costituisca inadempimento agli obblighi contrattuali e discenda da un comportamento ulteriore rispetto all’inadempimento, come quando consista in comportamento costituente reato imputabile a titolo di dolo».
Adesivamente al menzionato orientamento è stato detto che «. . . solo nel caso in cui il comportamento sanzionato, non riconducibile alla violazione di regole generali di morale od etica civile e, comunque ai precetti previsti dalla legge, costituisca una specifica ipotesi di giusta causa o di giustificato motivo espressamente prevista dalla normativa collettiva o da quella validamente posta dal datore di lavoro, il legittimo esercizio del potere di recesso di quest’ultimo può essere condizionato dalla preventiva affissione del codice disciplinare. In tale caso, infatti, si giustifica l’esigenza di rendere noto ai lavoratori la rilevanza che le parti collettive o lo stesso datore di lavoro attribuiscono a determinati comportamenti e la loro valutazione ai fini disciplinari» (Banzola, nota a Cass., sez. lav., sent. 11212/2001, cit., Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 6/2002, 537).
In conclusione, gli approcci interpretativi da ultimo esaminati, sull’assunto in base al quale le condotte socialmente deprecabili rivestono un’indiscussa rilevanza ai fini della giusta causa ex artt. 1 della legge n. 604/66, se per una parte ancorano la massima sanzione espulsiva alla coscienza civica, per l’altra finiscono per svincolare il carattere disciplinare del licenziamento da parametri normativi, a differenza di quanto accade per le sanzioni conservative, che si fondano su di una norma puntuale ad hoc, sia essa l’art. 2106 c.c. o le singole disposizioni del codice disciplinare aziendale.
Se tutto quanto detto è vero, quindi, la coscienza sociale assurge, prima del testo scritto, a prioritaria fonte di quel minimum di regole da ottemperarsi da ogni soggetto inquadrato in un gruppo sociale – e tale non può non dirsi il prestatore di lavoro subordinato –.
Da altro lato, con il conforto della S.C., può e deve parlarsi di pacifica convivenza sociale non solo in un contesto intra – aziendale e tra lavoratori ricoprenti una medesima qualifica (sul punto, si veda Cass., sez. lav., 28 novembre 1998, n. 12132, che predica la passibilità del licenziamento ex art. 2119 c.c. della rissa nei luoghi di lavoro), ma altresì, ed a fortiori, nei rapporti tra un lavoratore e la società presso la quale è impiegato.
E tutto ciò rileva, come bene ha chiarito l’orientamento che si sta esaminando, anche indipendentemente dalla esistenza di una norma di legge o del codice disciplinare, la cui affissione in questi casi non viene neppure in rilievo: «In tema di licenziamento disciplinare e con riguardo alla tempestività della contestazione dei fatti addebitati, il requisito di immediatezza va inteso in senso relativo e valutato dal giudice di merito anche in rapporto alla eventuale complessità delle indagini necessarie per l’accertamento dell’illecito, dovendosi peraltro considerare che tale requisito è posto a tutela del lavoratore ed inteso a consentirgli un’adeguata difesa, onde il ritardo nella contestazione può costituire vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore (Cass., sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5308; conf., id., 21 maggio 1998, n. 5090).
Pertanto, l’orientamento sulla tempestività del licenziamento disciplinare suggerisce agli operatori, ancora una volta, valutazioni elastiche da adattarsi al singolo caso, assolutamente confacenti alla natura dell’istituto della giusta causa di recesso e, prima ancora, alle concrete fattispecie portate all’attenzione dei giudici del lavoro.
Giorgio Vanacore
Avvocato in Napoli
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