Il giudice italiano difetta di giurisdizione rispetto ad un’azione risarcitoria promossa da un cittadino nei confronti del giudice ecclesiastico per supposti comportamenti, non penalmente rilevanti, produttivi di danno, che quest’ultimo avrebbe tenuto nel processo canonico per la dichiarazione di nullità di un matrimonio celebrato a norma dell’art. 8 dell’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121.
Cass. civ. Sez. Unite, 06/07/2011, n. 14839
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f.
Dott. DE LUCA Michele – Presidente Sezione
Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere
Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere
Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere
Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere
Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso proposto da:
mons. S.E., elettivamente domiciliato in Roma, via Pieriuigi da Palestrina 19, presso l’avv. Massimo Pagliari, rappresentato e difeso dall’avv. prof. RONCO ALBERTO giusta delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.M., elettivamente domiciliato in Roma, via Clitunno 51, presso l’avv. MARTIRE ANDREA, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
Per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente tra le parti innanzi al Giudice di pace di Torino R.G. n. 2772/10 introdotto con citazione notificata il 12 gennaio 2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24 maggio 2011 dal Consigliere Raffaele Botta;
Preso atto che nessuno è presente per le parti;
Lette le conclusioni scritte del P.M. che ha concluso per l’accoglimento del ricorso e la conseguente dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice italiano.
La controversia concerne un’azione intrapresa innanzi al Giudice di Pace di Torino dal sig. B.M. nei confronti di mons.
S.E. per il risarcimento di danni patrimoniali e non patrimoniali arrecatigli nello svolgimento delle funzioni giudicanti esercitate come giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale Piemontese nella causa per la dichiarazione della nullità del matrimonio contratto dal B. con la sig.ra T.O. a norma del diritto canonico, secondo la disciplina previsto dall’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Mons. S., nel costituirsi in giudizio, oltre a contestare la domanda nel merito, ha eccepito pregiudizialmente il difetto di giurisdizione del giudice italiano e, non essendo state ancora pronunciate sentenze, ha promosso ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione innanzi a queste Sezioni Unite. Resiste il B. con controricorso, illustrato anche con memoria.
MOTIVAZIONE
1. Il ricorrente evidenzia che, stante la causa petendi dell’azione di cui si discute nella richiesta del risarcimento del danno che all’attore sarebbe derivato dalla violazione delle regole processuali canoniche compiuta dal convenuto nell’esercizio delle sue funzioni di giudice ecclesiastico in una causa avente ad oggetto la dichiarazione di nullità di un “matrimonio canonico con effetti civili”, si tratterebbe nella specie di individuare quale sia il giudice competente a “valutare e sindacare la conformità al diritto canonico dei comportamenti che (il ricorrente medesimo) ha tenuto quale membro della Chiesa cattolica e quale titolare della potestas iudicandi che essa esercita in ambito matrimoniale”. 1.1. Riconoscere la giurisdizione del giudice italiano in una siffatta controversia significherebbe, secondo il ricorrente, violare la sovranità della Chiesa e l’autonomia giurisdizionale dei Tribunali ecclesiastici, in spregio a quanto sancito dall’art. 7 Cost. e dalla normativa pattizia che regola i rapporti tra lo Stato e la Chiesa stessa.
1.2. Il ricorrente evidenzia, inoltre, l’esistenza nel codice di diritto canonico di norme (i cann. 128, 1389, 1400, 1401, 1457, 1661) che regolano le azioni risarcitorie, come quella in questione esanzioni nei confronti dei giudici che commettono un atto illecito contro l’incarico loro affidato (i cann. 1386, 1389, 1391, 1457, 1470, p2, art. 75, p1, dell’Istruzione Dignitatis connubi)): sicchè riconoscere la giurisdizione del giudice italiano significherebbe “conculcare o comprimere la sfera – in cui opera il potere giudicante della Chiesa cattolica”. 1.3. Il ricorrente evidenzia, infine, che il difetto di giurisdizione del giudice italiano nella controversia de qua emergerebbe dalla stessa processuale del B. di impugnare per nullità il proprio matrimonio innanzi al giudice ecclesiastico invece che innanzi al giudice italiano, come ben avrebbe potuto in ragione della mutata disciplina pattizia sulla “riserva di giurisdizione ecclesiastica” sulle nullità matrimoniali prevista dal Concordato lateranense: il precetto electa una via non datur recursus ad alteram e il “principio della prevenzione”, che regola i rapporti tra le concorrenti giurisdizioni, ecclesiastica e civile, in materia di nullità del matrimonio canonico con effetti civili, vieterebbero, quindi, di far “riemergere” una giurisdizione, quella del giudice dello Stato, alla quale il B., per libera scelta, non ha fatto ricorso per ottenere che il proprio matrimonio fosse dichiarato nullo.
2. Il ricorso è fondato. Il difetto di giurisdizione del giudice italiano in una controversia come quella qui in esame, appare una ineludibile conseguenza della mutata disciplina pattizia – stabilita con l’Accordo di revisione del Concordato dell’11 febbraio 1929 con la Santa Sede, stipulato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con L. 25 marzo 1985 n. 121, unitamente al Protocollo addizionale -, relativa al matrimonio canonico con effetti civili, in particolare per quel che concerne il previsto riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale.
3. La situazione attuale è diversa da quella (in qualche misura analoga) disciplinata dall’art. 34 del Concordato lateranense che riconosceva una vera e propria riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio canonico trascritto, con una pressochè automatica (nonostante la necessità allo scopo di una ordinanza della Corte d’appello) rilevanza civile delle sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità di detto matrimonio.
3.1 Il sistema prevedeva sostanzialmente l’unicità dello status coniugale, che non poteva avere una diversa sorte nell’ordinamento canonico e neil’ordinamento dello Stato, in quanto, cessando detto status nel primo di tali ordinamenti, a seguito di una sentenza ecclesiastica che dichiarasse la nullità del matrimonio, il medesimo status veniva a, cessare necessariamente anche nell’ordinamento dello Stato, a seguito dell’exequatur, che, automaticamente e su iniziativa officiosa, veniva concesso alla sentenza in questione da parte della Corte d’appello competente per territorio.
3.2 In verità la più significativa e decisiva “trasformazione” del predetto assetto giuridico del matrimonio c.d. “concordatario”, si è realizzata, molto tempo prima del nuovo Accordo tra Stato e Chiesa, con l’approvazione della legge sul divorzio: la possibilità che i tribunali dello Stato dichiarassero lo scioglimento (sub specie “cessazione degli effetti civili”) del matrimonio canonico trascritto, spezzava, infatti, irrimediabilmente l'”unità” del sistema concordatario, che, come si è detto, trovava la sua ratio nella “unicità” dello status coniugale nell’ordinamento della Chiesa e nell’ordinamento dello Stato, e (quindi) minava alle basi (anche) la “esclusività” della riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio.
3.3. La sentenza 22 gennaio 1982, n. 18 della Corte costituzionale confermava (e rafforzava) il “quadro normativo” così delineatosi, mitigando l'”automaticità” dell’efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, sicchè la “riserva di giurisdizione”, se pur non “cadeva” formalmente, veniva, tuttavia, a perdere sostanzialmente la sua stessa ragion d’essere come tale e si avviava inevitabilmente a costituire un “relitto storico”. 4. La riformata disciplina pattizia nulla dice espressamente circa la riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio canonico trascritto. Ma tale “silenzio”, secondo il giudizio espresso da queste Sezioni Unite (come peraltro da autorevole dottrina), significa che la “riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio” deve ritenersi abrogata: ciò anche alla luce del chiaro disposto di cui all’art. 13, comma 1, secondo periodo, dell’Accordo tra Stato e Chiesa del 1984, a norma del quale, “salvo quanto previsto dall’art. 7, n. 6 (circa la materia degli enti e beni ecclesiastici), le disposizioni del Concordato (lateranense) non riprodotte nel (nuovo) testo sono abrogate”. 4.1. Queste Sezioni Unite, ritenendo che l’Accordo di revisione del Concordato lateranense non abbia riproposto la “riserva” della giurisdizione ecclesiastica ivi prevista, nè abbia recepito il matrimonio religioso nella sua sacramentalità, e, comunque, non gli abbia accordato dignità superiore rispetto a quello civile, hanno affermato che per le cause inerenti alla nullità del matrimonio c.d.
“concordatario”, sussistono tanto la giurisdizione italiana, quanto la giurisdizione ecclesiastica. Tali giurisdizioni “concorrono in base al criterio della prevenzione (con la conseguenziale affermazione della giurisdizione del giudice italiano ove risulti preventivamente adito), e poi trovano collegamento nel procedimento delibativo delle decisioni del tribunale ecclesiastico (procedimento non più officioso, e modellato, con alcune peculiarità, sulle regole di cui all’art. 796 c.p.c. e segg., a conferma del sopravvenuto diniego del carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica)” (Cass. S.U., 13 febbraio 1993, n. 1824).
4.2 Questo principio si è poi consolidato nella giurisprudenza della Corte (v. secondo varie, ma alla fine convergenti, posizioni, Cass. 10 aprile 1997, n. 3345; Cass. 16 novembre 1999, n. 12671; Cass. 19 novembre 1999, n. 12867; Cass. 4 marzo 2005, n. 4795) e si è evoluto fino al punto di indicare che in materia di matrimonio religioso nell’ordinamento dello Stato vale il “principio del primato della legge nazionale nella regolamentazione degli effetti civili del vincolo coniugale” (Cass. 16 novembre 2006, n. 24494). Ciò a marcare, con maggiore evidenza, che in un quadro costituzionale orientato ai principi di laicità e della separazione degli ordini tra Stato e confessioni religiose, la pienezza di giurisdizione dello Stato sui matrimonio appartiene alla categoria dei “valori non negoziabili”: sicchè i caratteri peculiari che la famiglia o il matrimonio abbiano in un ordinamento confessionale restano irrilevanti, funzionando il principio di laicità da argine ad una eventuale esondazione dei principi di fede nell’ordine dello Stato.
5. Sicchè sembra davvero insostenibile continuare a parlare, pur dopo la revisione concordataria, dei sopravvivere di una riserva di giurisdizione, nei fatti già superata dalla rinnovata struttura ordinamentale della disciplina statuale sul matrimonio: e questa opinione trova conforto in molte prove “positive”. 5.1. Intanto, il fatto che nel nuovo Accordo l’efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale sia divenuta meramente eventuale, perchè condizionata ad una espressa richiesta dei coniugi: richiesta che può essere esercitata esclusivamente dai coniugi, non essendo l’azione trasmissibile agli eredi (v. in proposito Cass. 1 dicembre 2004, n. 22514).
5.2. Inoltre, il testo neoconcordatario nemmeno menziona la giurisdizione ecclesiastica, che rimane così estranea ed esterna (come il matrimonio religioso) all’ordinamento dello Stato: sicchè potrebbe dirsi che l’esito più credibile dell’Accordo sia stato non la concorrenza, nè il riparto, ma piuttosto la separazione delle giurisdizioni (canonica e civile), destinate ciascuna a svolgersi e ad esaurirsi nel “proprio ordine”. 5.3. A ben guardare, il testo pattizio non prevede un riconoscimento (quale che si voglia) della giurisdizione ecclesiastica, ma (più semplicemente) riconosce ai coniugi il “diritto” di chiedere ed ottenere, ricorrendone le condizioni previste dalla legge, l’efficacia civile delle (sole) sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, a mezzo di un apposito giudizio da svolgersi avanti alla Corte d’appello competente per territorio: in buona sostanza, il legislatore pattizio sembra aver voluto (esclusivamente) attribuire ai cives – fideles il “diritto” ad ottenere (nel concorso delle condizioni di legge) un provvedimento (la sentenza di “delibazione” della pronuncia ecclesiastica di nullità) che accertasse la cessazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi in una “forma” che fosse compatibile con le ragioni della loro fede.
5.4. Si comprende così anche come una delle ragioni del superamento della “riserva di giurisdizione ecclesiastica” sia stata individuata nella necessità di tutelare lo ius poenitendi dei coniugi (o di uno di essi) che non condividessero più quella scelta, tutta religiosa, che li aveva determinati a costituirsi coniugi in facie Status nella “forma” del “matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico”, con la conseguente esclusione della legittimità dell’automatica efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, che costituiva l’effetto naturale della riserva di giurisdizione.
5.5. Peraltro, anche la richiesta di uno dei coniugi perchè la sentenza ecclesiastica acquisti efficacia nell’ordinamento dello Stato non è sufficiente a determinare di quella sentenza la rilevanza “interna”, ben potendo il giudice civile esprimersi negativamente in proposito. Ciò è ben evidenziato dalla recente posizione assunta da questa Corte che ha ritenuto “ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, in quanto essa è espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito, con cui è incompatibile, quindi, l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge” (Cass. 20 gennaio 2011, n. 1343).
5.6. Mentre la separazione tra le due giurisdizioni – ecclesiastica e civile – è plasticamente stabilita dalla norma pattizia (art. 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo di Villa Madama), prevedendo che in ogni caso il giudice italiano non può procedere al riesame del merito di fronte ad una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio della quale sia stata richiesta dalle parti l’efficacia nell’ordinamento dello Stato.
6. In questo nuovo quadro dei rapporti tra Stato e Chiesa in materia matrimoniale, nel quale la giurisdizione ecclesiastica sulla nullità del matrimonio resta assolutamente esterna all’ordinamento dello Stato – potendo divenire (ma solo eventualmente) civilmente rilevante esclusivamente (e in presenza di determinate condizioni) la sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio – non è nemmeno pensabile che il giudice italiano possa avere giurisdizione sui comportamenti (suppostamente non conformi alle regole processuali canoniche) che il giudice ecclesiastico avrebbe tenuto all’interno del processo (regolato dalle norme del diritto canonico) svoltosi e conclusosi tutto in una sfera estranea all’ordinamento statuale.
6.1. Se al giudice italiano è, per espressa disposizione pattizia, interdetto il “riesame del merito” della vicenda processuale matrimoniale, quando uno dei coniugi a detto giudice abbia chiesto di attribuire effetti civili alla sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio – segnale evidente del diverso (rispetto all’ordinamento dello Stato) piano sul quale il processo canonico si svolge -, non è concepibile da parte del giudice italiano l’esercizio di una giurisdizione assai più penetrante come quello che esigerebbe la domanda risarcitoria proposta a B..
7. Il giudice ecclesiastico, nello svolgimento e nella gestione del processo (nel caso, matrimoniale) canonico, pur interpretando una funzione ministeriale, ministerium iudicis, non è (e non agisce come e nelle vesti di) “ministro di culto” (nel significato proprio che questa endiadi ha nell’ordinamento statuale) e non è (e non agisce come e nelle vesti di) pubblico ufficiale (nè di chi svolge esercizio di pubblico servizio), ai sensi del (e con rilevanza per il) diritto dello Stato, perchè tale diritto non gli attribuisce e non gli riconosce una siffatta funzione, come, invece, la attribuisce e la riconosce al parroco celebrante le nozze, il quale è dotato dalla legge di uno specifico “potere di certificazione”. 7.1. L’attività esercitata dal giudice ecclesiastico nel processo canonico, gli atti da lui compiuti e la conformità dei medesimi al diritto canonico in generale e alle regole processuali canoniche in particolare, non possono essere oggetto, in quanto tali e fino a quando detti atti restino funzionali all’attività processuale e interni al processo stesso, di un sindacato da parte del giudice dello Stato, in omaggio sia alla riserva esclusiva di giurisdizione ecclesiastica sulla violazione delle leggi ecclesiastiche espressa dal can. 1401 c.i.c., sia alla regola fondamentale della separazione ed indipendenza degli ordini espressa dall’art. 7 Cost., separazione e indipendenza che costituiscono l’essenza stessa del principio di laicità dello Stato.
7.2. Il sindacato del giudice statuale, e la relativa giurisdizione, possono, invece, sussistere rispetto ad atti per i quali non sussista (o si sia spezzato) il nesso funzionale tra attività e processo o si tratti di atti che violano la legge penale (qualora, o nei casi in cui, si ritenga che non possa operare, come sostiene la più autorevole dottrina, proprio con riferimento alla libertà ed autonomia della giurisdizione ecclesiastica, l’esimente di cui all’art. 51 c.p.): in base al principio della territorialità della legge penale tutti coloro che operano nei territorio dello Stato, indipendentemente dalla qualifica personale e dal tipo di attività che essi svolgono. Nell’ardua actio finium regundorum tra ordinamento della Chiesa e ordinamento dello Stato, il cui confine corre nel cuore degli uomini, senza che rilevino, per distinguerli, i concetti di “popolo” e di “territorio”, il limite del rispetto della legge penale (statale) può essere la più efficace tutela della reciproca “invalicabilità della soglia”, essenziale carattere dell’autonomia e dell’indipendenza delle due giurisdizioni.
7.3. Al di fuori di quest’ambito, per tutti gli atti che siano funzionali al processo e all’interno dello stesso vengano compiuti non è ammissibile altra valutazione che quella espressa dalla giurisdizione ecclesiastica, in particolare per quanto riguarda la valutazione di conformità degli atti stessi alle regole processuali canoniche e alle leggi ecclesiastiche in generale: altrimenti la stessa tutela della libertà ed autonomia della giurisdizione ecclesiastica, assicurata, sul piano pattizio, dall’art. 2 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense e, sul piano costituzionale, dall’art. 7 Cost., rimarrebbe un’affermazione priva di un qualsiasi concreto contenuto.
7.4. Peraltro, quand’anche (e comunque fuori dal limite del rispetto della legge penale) gli atti compiuti dal giudice ecclesiastico in violazione di regole processuali canoniche comportassero una violazione del diritto di difesa di una delle parti nel processo, ne conseguirebbe unicamente che la sentenza canonica rimarrebbe sfornita di efficacia civile, ostandovi appunto il non realizzato principio del contraddittorio e della parità delle armi (secondo i principi individuati dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n.18 del 1982), senza che, tuttavia, si possa pretendere una omoloqabilità delle regole processuali canoniche a quelle proprie processualcivilistiche, stante la tutela costituzionale dell’autonomia confessionale e dell’indipendenza e sovranità della Chiesa. Sicchè il compimento di quegli atti (suppostamente) contra ius rimarrebbe privo di rilevanza nell’ordinamento dello Stato, con la conseguente assenza in tale ordinamento di un (eventuale) diritto ad un danno risarcibile, esercitabile nei confronti del giudice ecclesiastico.
8. Quest’ultimo, tuttavia, risponde dei propri atti nell’ordinamento canonico il quale prevede la responsabilità del giudice in una serie precisa di norme, in particolare per quanto riguarda l’esercizio della giurisdizione nelle cause matrimoniali alla cui regolamentazione è dedicata una apposita Istruzione, la Dignitatis Connubii del 25 gennaio 2005. 9. Va, quindi, affermato, in accoglimento del ricorso il seguente principio di diritto: “Il giudice italiano difetta di giurisdizione rispetto ad una azione risarcitoria promossa da un cittadino nei confronti del giudice ecclesiastico per supposti comportamenti, non penalmente rilevanti, produttivi di danno che quest’ultimo avrebbe tenuto nel processo canonico per la dichiarazione di nullità di un matrimonio che sia stato celebrato a norma dell’art. 8 dell’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, ratificato con L. 25 marzo 1985, n. 121“. 10. L’assoluta novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Pronunciando sul ricorso, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Compensa le spese.
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