1. – Generalità.
Il tema dell’applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla p.a. per omessa od insufficiente manutenzione di pubbliche vie, cui segua un sinistro, è attualmente assai discusso. Prima di affrontarlo ex professo , valga la pena di compiere una panoramica generale sulla fattispecie di responsabilità da cose in custodia.
È noto che dottrina e giurisprudenza così individuino i requisiti della responsabilità ex art. 2051 c.c.:
a ) essersi il danno verificato nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa;
b ) esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi; (in tal senso, espressamente, ex plurimis , Cass. 20 maggio 1998 n. 5031; in dottrina, per tutti, C. M. Bianca, Diritto civile, La responsabilità , Milano, 1994, rist. 2002, 714).
In particolare, poi, perché sia integrata la responsabilità da cose in custodia è necessario che il danno sia originato dalla cosa in se .
Se la cosa è stata uno strumento dell’azione dell’uomo, che su essa esercita un potere di controllo e di vigilanza, il rapporto cosa – danno sarebbe mediato dal di lui agire e troverebbe applicazione l’art. 2043 c.c. (Corte Cost., 29 aprile – 10 maggio 1999, n. 156; Cass. 25 marzo 1995 n. 3553; in dottrina, Mastropaolo, Custodia , Enc. Giur. Treccani , X, 12, Roma, 1988).
Fatta tale premessa, si assiste, allo stato, a vivaci discussioni circa l’applicabilità o meno dell’art. 2051 c.c. alla p.a. per omessa od insufficiente manutenzione di pubbliche vie, cui segua un sinistro.
Attualmente, si sta facendo breccia l’orientamento secondo cui l’art. 2051 c.c. è applicabile alle insidie su strade pubbliche, salvo che l’effettivo, continuo ed efficace controllo sulla strada da parte della p.a. sia risultato oggettivamente impossibile in ragione della notevole estensione di essa e del suo uso generale da parte di terzi, ipotesi, quest’ultima, che comporterebbe l’applicazione – residuale – dell’art. 2043 c.c..
Di tale indirizzo è espressione la seguente, recente, sentenza della III sezione della S. C., che ha ribaltato l’orientamento in voga negli anni passati: «L’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ. (nei confronti della p.a. (o del gestore) non è automaticamente esclusa allorquando il bene demaniale o patrimoniale da cui si sia originato l’evento dannoso, risulti adibito all’uso diretto da parte della collettività . . . e si presenti di notevole estensione.. . . Queste caratteristiche del bene, infatti, quando ricorrano congiuntamente, rilevano soltanto come circostanze le quali – in ragione dell’incidenza che abbiano potuto avere sull’espletamento della vigilanza connessa alla relazione di custodia del bene ed avuto riguardo alle peculiarità dell’evento – possono assumere rilievo sulla base di una specifica e adeguata valutazione del caso concreto, ai fini dell’individuazione del caso fortuito e, quindi, dell’onere che la p.a. (o il gestore) deve assolvere per sottrarsi alla responsabilità, una volta che sia dimostrata l’esistenza del nesso causale» (Cass. 1 ottobre 2004, n. 19653).
Ancora, così si era espressa la terza sezione in una precedente sentenza: «Nel caso di danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, non è configurabile la responsabilità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 2051 c.c. solo ove l’esercizio di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire situazioni di pericolo per gli utenti, sia risultato oggettivamente impossibile a causa della notevole estensione del bene e del suo uso generale da parte dei terzi (nella specie, si è riconosciuta la responsabilità di un comune per i danni occorsi in seguito ad una caduta su strada urbana destinata, in parte, al transito pedonale ed in cattive condizioni di manutenzione» (Cass. 23 luglio 2003, n. 11446; conformi, ex plurimis , Cass. 15 gennaio 2003, n. 488; 13 gennaio 2003 n. 298; 31 luglio 2002, n. 11366; 13 febbraio 2002, n. 2074; 13 febbraio 2002, n. 2067; 21 dicembre 2001, n. 16179; 20 novembre 1998, n. 11749; 28 ottobre 1998, n. 10579; 22 aprile 1998, n. 4070; 27 dicembre 1995, n. 13114; 21 gennaio 1987, n. 526; 4 aprile 1985, n. 2319; 30 ottobre 1984, n. 5567, 3 giugno 1982, n. 3392; 7 gennaio 1982, n. 58; tra la giurisprudenza di merito, Trib. Milano 3 marzo 2004, Trib. Brindisi 11 dicembre 2003, Giud. pace Segni, 18 maggio 2002, Trib. Venezia 12 maggio 2003, Trib. Cagliari 27 luglio 2000, Pret. Torino 27 gennaio 1997; Giud. Pace Reggio Calabria, 26 marzo 1997, id. , 18 marzo 1997, Pret. Monza 29 novembre 1986).
In sostanza, accogliendo la linea interpretativa di cui ai citati dicta , la terza sezione della Cassazione ha superato la presunzione – in voga in passato – secondo cui dalla demanialità del bene discendesse ipso iure l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c. e, quindi, la necessaria applicazione dell’art. 2043 c.c..
Da tale impostazione deriva, come è noto, un alleggerimento dell’ onus probandi in capo all’attore nella fattispecie di responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., rispetto alla fattispecie di generica responsabilità ex art. 2043 c.c..
Nella prima, infatti, sarà sufficiente dimostrare l’esistenza del rapporto soggetto – cosa – danno, e la prova liberatoria sarà più gravosa per il danneggiante, vertendosi in ipotesi di responsabilità presunta iuris tantum ; nella seconda bisognerà quanto meno, allegare la colpa del danneggiante, che non dovrà superare alcuna presunzione di responsabilità.
Si legge, infatti, in Cass. 19653/2004: «Il principio (quello che nega l’applicazione dell’art. 2051 c.c. alle ipotesi analoghe al caso di lite, n.d.r.), però, nella più recente giurisprudenza di questa Corte, risulta sostanzialmente abbandonato proprio quanto a tale automatismo (vale a dire, l’automatica disapplicazione dell’art. 2051 c.c., n.d.r.), pervenendosi alla conclusione – certamente più rispettosa dell’assenza nell’art. 2051 cod. civ., di indici rivelatori di una peculiarità del trattamento da riservarsi alla P.A., allorquando rivesta la qualità di custode di una cosa – che la demanialità o patrimonialità del bene, l’essere esso adibito ad uso generale e diretto (sia pure mediato da provvedimento ammissivo della P.A. o da stipulazione di un vero e proprio rapporto contrattuale con essa) e la sua notevole estensione non comportano di per sé l’esclusione dell’applicabilità della norma dell’art. 2051, ma implicano soltanto che, nell’applicazione di tale norma e, quindi, nell’individuazione delle condizioni alle quali la P.A. può ritenersi esente da responsabilità in base ad essa, quelle caratteristiche debbano indurre una particolare valutazione delle condizioni normativamente previste per tale applicazione, in modo che venga considerata la possibilità che la situazione pericolosa originatasi dal bene può determinarsi in vari modi, i quali non si rapportano tutti alla stessa maniera con le implicazioni che comporta il dovere di custodia della P.A. in relazione al bene di cui trattasi e particolarmente quello di vigilare affinché dalla cosa o sulla cosa non si origini quella situazione».
Ed ancora, conclude la S.C. «. . . il più recente orientamento di questa Corte non considera la combinazione delle tre caratteristiche della demanialità o patrimonialità del bene, dell’uso diretto da parte della collettività e della sua estensione automaticamente idonee ad escludere l’astratta applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., bensì come circostanze, le quali, in ragione delle implicazioni che determinano sull’espletamento della vigilanza connessa alla indubbia ricorrenza della relazione di custodia del bene, possono svolgere rilievo ai fini dell’individuazione del caso fortuito e, quindi, dell’onere che la P.A ., una volta configurata applicabile la norma e ritenuta l’esistenza del nesso causale, deve assolvere per sottrarsi alla responsabilità. Ancorché le citate pronunce non lo abbiano affermato expressis verbis , quelle caratteristiche finiscono, in sostanza, per giocare soltanto un rilievo ai fini dell’operare della prova liberatoria».
2. – Aspettativa negli utenti della strada a che le cose costituenti arredo urbano non abbiano a cagionar danni.
Come detto al punto che precede, in materia d’insidia stradale la terza sezione della Cassazione ha ribaltato il principio dell’automatica disapplicazione alla p.a. dell’art. 2051 c.c., presumendo, quindi, il rapporto di custodia tra la p.a. stessa e la strada, salva la prova dell’impossibilità di un controllo continuativo a causa della notevole estensione e dell’uso generale del bene, che condurrebbe all’applicazione dell’art. 2043 c.c..
Sennonché, pur nell’esaminata ottica favorevole all’applicazione dell’art. 2051 c.c. alle insidie derivanti da cose costituenti arredo urbano, nell’intento di superare situazioni di ingiustificato privilegio per i soggetti pubblici, la terza sezione medesima si è mostrata sensibile al fatto che essi potrebbero sempre agevolmente dare la prova dell’impossibilità del controllo continuativo e dell’uso generale delle strade, e ciò in quanto la rete viaria è per sua natura estesa e sottoposta all’uso della generalità dei consociati.
Tale ultima preoccupazione ha, quindi, fatto affermare alla S.C. che i limiti all’applicazione dell’art. 2051 c.c. – a vantaggio dell’applicazione dell’art. 2043 c.c. – vadano valutati con riferimento al caso concreto, con riguardo, cioè, alla tipologia della strada ed allo stato dei mezzi tecnologici attuali: «Ora, non pare revocabile in dubbio che la possibilità o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza – dalle quali rispettivamente dipendono l’applicabilità o l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c. – non si atteggiano univocamente in relazione ad ogni tipo di strada. E ciò non solo in relazione alla loro estensione, ma anche alle loro caratteristiche, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che le connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico volta a volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti» (Cass. 15 gennaio 2003, cit.).
Quindi, spostando il discorso sul piano del nesso causale, se è vero che si ha responsabilità ex art. 2051 c.c. quando il danno si verifichi nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa (si veda, ancora, Cass. Cass. 20 maggio 1998, cit.), il custode deve attivarsi perchè la res , proprio nella sua normale interazione con il contesto circostante, non abbia a causar danni.
Verificatosi un danno, quindi, più alta era nel danneggiato, l’aspettativa a che lo stesso non venisse causato dalla res , in ragione del fatto che il custode aveva l’obbligo di adoperarsi per evitare proprio che da «quella» cosa derivasse «quel» danno, più alto è il grado di certezza che lo stesso debba ascriversi proprio alla cosa e, pertanto, sul piano della responsabilità, al custode medesimo.
Quanto appena detto appare tanto più vero se si considera che gli utenti delle pubbliche vie, destinate per loro natura alla circolazione – a piedi o su mezzi di trasporto – si attendono che le stesse siano costantemente oggetto di manutenzione, sì da evitare che siano fonti di danno alla loro integrità personale, o, anche, a beni di loro proprietà (si pensi, ai mezzi di trasporto).
In ipotesi che potrebbero verificarsi nel quotidiano vivere, la presenza su strada di una non visibile sconnessione attorno – ad esempio – ad un tombino fognario, determinante una caduta dell’utente della strada con danni alla sua persona, concreta pacificamente una responsabilità in capo alla p.a. proprietaria, rea di non essersi attivata in ordine alla rimozione di una fonte di pericolo per i consociati.
A nulla gioverebbe affermare, per sostenere l’inapplicabilità dell’art. 2051 c.c., l’incontrollabilità dello stato della via in questione stante la vastità della rete stradale, e ciò a mente delle seguenti, ulteriori, considerazioni.
Innanzitutto, per fugare ogni dubbio sul fatto che le grandi dimensioni del demanio stradale comunale siano di ostacolo ad un controllo ed ad una manutenzione costanti, si ponga mente al fatto che la Corte di legittimità ha ritenuto applicabile l’art. 2051 c.c. persino alle autostrade, e ciò in considerazione che all’ente proprietario non è impedita « . . . la possibilità di svolgere un’adeguata attività di vigilanza, che sia in grado di impedire l’insorgere di cause di pericolo per gli utenti . . .» (Cass. 13 gennaio 2003, cit.).
Inoltre, la giurisprudenza afferma costantemente che il controllo continuativo delle condizioni dei beni demaniali rientra negli obblighi (istituzionali) di manutenzione ordinaria, dai quali l’ente locale non può esimersi, ciò in quanto il progresso tecnologico predispone, oggi, gli strumenti di verifica più idonei ad evitare insidie (sul punto si legga, ancora, Cass. 15 gennaio 2003, cit.).
L’impossibilità da parte delle p.a. di esercitare, in concreto, la necessaria vigilanza delle strade de quibus – si pensi in specie a quelle versanti in uno stato di abbandono o semi – abbandono – si risolverebbe in una formula preconcetta e di mero stile, volta a creare una vera e propria presunzione di irresponsabilità in capo all’ente locale.
Infatti, fatte salve le ipotesi di insidia che si vengano a creare improvvisamente, è molto più che prevedibile che su strade che non siano oggetto di manutenzione neppure periodica abbiano a verificarsi danni.
Discende da quanto appena detto, per ritornare al caso della via in stato di abbandono, che su essa vi è sempre la possibilità per l’ente proprietario di esercitarvi la dovuta custodia, il che si realizza rimuovendo la omissione di vigilanza e controllo, costituente un titolo di responsabilità ex art. 2051 c.c. tutte le volte in cui sia fonte di danno per i privati.
Per gli stessi motivi, non è neppure invocabile, per escludere la responsabilità del soggetto pubblico ex art. 2051 c.c., la sussistenza del caso fortuito, che la Cassazione ravvisa quando l’evento dannoso «. . . presenti i caratteri della imprevedibilità e della inevitabilità; come accada quando esso si sia verificato prima che l’ente proprietario o gestore, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata al fine di garantire un intervento tempestivo, potesse rimuovere o adeguatamente segnalare la straordinaria situazione di pericolo determinatasi, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere» (Cass. 13 gennaio 2003, cit.).
In conclusione, come bene è stato detto in dottrina, il «. . . lasciare scoperto il tombino – anche se solo temporaneamente – senza adottare le opportune cautele comporti la violazione del ragionevole diritto del cittadino a confidare nell’assenza di rischio delle cose costituenti arredo urbano» (in tal senso, espressamente, Pardolesi, commento a Cass. 4 novembre 2003, n. 16257, Danno e responsabilità , 2004, 164).
3. – Esame della legislazione speciale in materia di strade.
L’applicazione dell’art. 2051 c.c. alla fattispecie di danni in commento consegue, altresì, dall’esame della legislazione speciale in materia di strade.
In particolare, l’art. 5, r.d. 15 novembre 1923 n. 2506, recante «Disposizioni per la classificazione e manutenzione delle strade pubbliche», così dispone: «Alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade di quarta classe provvedono i rispettivi comuni a totali proprie spese».
Come specificato dal precedente art. 1, lett. d ) del r.d. in esame:
«Appartengono alla quarta classe: . . . le strade . . . che congiungono il maggior centro d’un comune con le sue frazioni, con la chiesa parrocchiale, col cimitero, con la prossima stazione ferroviaria, tramviaria, o con un porto marittimo, lacuale o fluviale; quelle che congiungono le principali frazioni d’un comune; quelle che sono nell’interno dei luoghi abitati e non costituiscono traverse di strade delle prime tre classi».
Ancora, ed è ciò che più conta, l’art. 14, d. lgs. 30 aprile 1992 n. 285 – «Nuovo codice della strada», statuisce che:
Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono:
a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi;
b) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze;
c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta.
L’esistenza di una normativa di dettaglio che prescrive pregnanti obblighi manutentivi e custodiali in capo all’ente proprietario – concretatisi nella manutenzione, nella pulizia nel controllo dell’efficienza e nell’importante opera di posizionamento della segnaletica – postula, in caso di sinistro derivante da insidia stradale, l’applicazione della fattispecie ex art. 2051 c.c..
In tal senso, sul punto della violazione della normativa di dettaglio, Cass. n. 11749/1998, cit.: «Dalla proprietà pubblica del comune sulle strade poste all’interno dell’abitato discende per l’ente non solo l’obbligo della manutenzione, come stabilito dall’art. 5 r.d. 15 novembre 1923 n. 2506, ma anche quello della custodia, con conseguente operatività, nei confronti dell’ente stesso, della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. (conformi, Cass. 21 maggio 1996, n. 4673, 27 gennaio 1988, n. 723, cit., 3 giugno 1982 n. 3392, 7 gennaio 1982 n. 58, citt.).
Ed ancora, sulla portata precettiva dell’obbligo manutentivo ex art. 14 del c.d.s., si legga, ancora, Cass. 14 luglio 2004, n. 13087: «La corretta interpretazione della norma porta, invece, a ritenere che l’ente proprietario è tenuto a controllare l’efficienza della strada allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione»
Orbene, l’inosservanza di tutti i menzionati obblighi in capo alla p.a. – custode trova, ancora una volta, la sua sanzione nell’art. 2051 c.c., la cui funzione consiste, in quest’ottica, nell’imputare la responsabilità esclusivamente a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa (custode e o proprietario), onde scongiurare l’insorgenza di danni.
Così ragionando, l’attribuzione ex lege alla p. a. della proprietà di alcuni beni, tra i quali appunto le strade, implica il riconoscimento della custodia, rilevante ex art. 2051 c.c., all’unico soggetto astrattamente idoneo a consentirne l’uso e la gestione più adatti.
Del resto, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 156/1999 cit., ammoniva in più di un passo circa il fatto che «. . . la manutenzione delle strade costituisce per l’ente pubblico un dovere istituzionale non correlato ad un diritto soggettivo dei privati, i quali possono far valere soltanto un interesse legittimo al corretto esercizio del potere discrezionale dell’ente medesimo. Pertanto il difetto di manutenzione assume rilievo, nei rapporti con i privati, unicamente allorché la pubblica amministrazione non abbia osservato le specifiche norme e le comuni regole di diligenza e prudenza poste a tutela dell’integrità personale e patrimoniale dei terzi. . . .»
4. – Indirizzo tradizionale: applicazione dell’art. 2043 c.c..
A mente dell’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale tradizionale – che, come detto, la terza sezione S.C. ha sottoposto definitivamente a revisione con le recenti sentenze nn. 19653/2004 e 11446/2003 – i casi di danni all’utente della strada dovrebbero inquadrarsi nella fattispecie del risarcimento per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c..
Tale inquadramento è figlio della concezione in voga a partire dal primo ventennio del secolo scorso in poi, che affermò una responsabilità della p.a. iure privatorum tutte le volte che da un’insidia o un trabocchetto fosse derivata la lesione di un diritto.
In tal modo venne bandito il dogma dell’irrisarcibilità dei danni cagionati dagli enti pubblici, il cui risultato era, per il soggetto pubblico, una vera e propria «aura d’irresponsabilità» per fatti illeciti che colpivano i cittadini.
Di un inquadramento dell’insidia stradale nell’art. 2043 c.c. è espressione la seguente massima: «La p.a. nell’esercizio del suo potere discrezionale in ordine alla esecuzione e manutenzione di opere pubbliche, nonché nella vigilanza e controllo in genere dei beni demaniali, incontra i limiti derivanti sia da norme di legge che regolamentari, sia da norme tecniche, sia da norme di comune prudenza e diligenza ed, in particolare, dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che l’opera pubblica non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto evidenziata dal carattere oggettivo della non visibilità e da quello soggettivo della non prevedibilità del pericolo. La p.a. incontra, nell’esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e controllo dei beni demaniali, limiti derivanti dalle norme di legge e di regolamento, nonché dalle norme tecniche, e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed, in particolare, dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere , in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile» (in tal senso, espressamente, Cass., 12 novembre 1997, n. 11455; conf., id. , 28 luglio 1997, n. 7062).
In tale ottica, la disposizione violata sarebbe quella – fondamentale – dell’art. 2043 c.c., che finisce per assolvere al ruolo residuale che le è proprio, tutte le volte che non trovi applicazione una norma a carattere speciale.
Giorgio Vanacore – avvocato in Napoli
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